La coscienza: consapevolezza di sé

Massimo Roncoroni

  1. Coscienza e consapevolezza di sé tra scienza e metafisica
    In genere usiamo i termini coscienza e autocoscienza per indicare le nostre più elevate esperienze
    intellettuali. Criterio soggettivo e introspettivo, pur se tramite la comunicazione linguistica si può
    stabilire che gli altri esseri umani condividono tale esperienza di auto-conoscenza.
    L’autocoscienza pare quindi la caratteristica più specifica e fondamentale della specie umana. Essa
    è una novità evolutiva perché le specie biologiche, donde viene pure l’umanità, hanno soltanto
    rudimenti di consapevolezza di sé e di ciò che è altro da sé, quando non ne manchino del tutto.
    Essa però ha portato con sé spiacevoli compagnie, quali paura, ansia, consapevolezza della morte,
    che assedia, insidia e opprime l’uomo; ma anche gioia e speranza.
    Da qui l’interesse per la fine della vita che si rivela nelle sepolture cerimoniali degli uomini
    primitivi.
    Il progressivo sviluppo dalla coscienza nel neonato alla autocoscienza del bambino è in qualche
    modo un modello della comparsa evolutiva della coscienza. E Karl Popper osserva che “la
    comparsa di una coscienza capace di auto-riflessione è uno dei più grandi miracoli” (1) nel senso di
    un evento misterioso e imprevedibile.
    Nel corso dell’evoluzione pare che qualche forma primitiva di auto-riconoscimento abbia preceduto
    la traumatizzante esperienza della consapevolezza della morte e la speranza di una vita futura,
    espresse in alcune credenze religiose (2). Anche il bambino solitamente acquisisce la conoscenza di
    sé prima che compaia in lui la consapevolezza della morte.
  2. La persona umana
    Ognuno di noi si sperimenta sempre, sia pur nel flusso cangiante di ogni istante, persona dotata di
    auto-coscienza che non è solo consapevole, ma sa anche di esserlo. Vi sono al riguardo due
    significative affermazioni di Kant circa la persona, quando osserva che “la persona è un soggetto
    responsabile delle proprie azioni” e “chi ha coscienza dell’identità numerica di se stesso in tempi
    diversi è persona” (3). Popper ed Eccles in l’Io e il suo cervello parlano di “emergenza della piena
    coscienza, capace di auto-riflessione come di un prodigio tra i più straordinari” (4).
    Se facciamo coincidere la persona con l’insieme di volto, corpo, membra che caratterizzano
    ciascuno di noi, siamo in errore. L’amputazione di arti e la perdita degli occhi sono da considerarsi
    solo degli accidenti che lasciano alla persona umana la sua essenziale identità. Lo stesso per la
    rimozione di organi interni, onde la persona umana resta immutata dopo un trapianto di reni o di
    cuore, come avviene per molti altri organi rimossi del tutto o in parte.
    La Neurobiologia e le neuroscienze moderne con tecniche avanzate studiano quelle aree cerebrali
    che vengono definite neural correlates, o meglio correlati neuronali della coscienza e che
    corrispondono ad attivazione di determinate aree della corteccia e degli strati più interni in seguito
    ad azioni specifiche monitorabili o inducibili dall’esterno del soggetto (5).
    Il problema è affrontato da diversi punti di vista, non solo di natura medico-biologica, e questo
    consente descrizioni molto approssimate mediante modelli matematici di alcune funzioni le cui
    implementazioni sfociano nella robotica. I tentativi di modellizzazione teorica del fenomeno sono
    1
    fondati su semplificazioni notevoli, che servono a mettere in luce gli aspetti salienti delle azioni
    necessarie per arrivare alla attività cosciente, senza fornirne un modello completo (6).
    Si possono spiegare gli eventi neuronali che mediano lo stato conscio, ma certamente non ancora la
    totalità di quei processi per cui «l’acqua del cervello fisico si trasforma nel vino dell’esperienza»
    (7), esperienza che è anche del tutto individuale, difficilmente generalizzabile, perché la coscienza
    interna è quanto di più personale possa trovarsi in ogni singolo uomo (hic homo cumsciet) (8).
    Già Kurt Gödel aveva sottolineato che la mente dell’uomo non è omologabile ad una macchina a
    stati finiti perché si sviluppa costantemente (9). Per questo la previsione era e rimane che la
    coscienza nella sua accezione più ampia difficilmente possa essere simulata con le attuali
    conoscenze teoriche e pratiche di scienza dell’informazione e di ingegneria elettronica (10).
    «Dimostrare che l’uomo è una macchina si è rivelata un’impresa senza prospettive che ha come
    unico effetto un impoverimento sul piano conoscitivo» scrive Giorgio Israel (11). La simulazione è
    possibile solo per piccole porzioni di sistema, come fatto, ad esempio, per il sistema neo-corticale
    del topo (12).
    Esistono poi altre prospettive come quella più recente di ipotizzare la coscienza come una proprietà
    emergente del sistema complesso cervello, che comunque al momento attuale rimangono ipotesi
    tutte da verificare per la mancanza di leggi ponte tra le molecole, le loro interazioni e le proprietà
    che il sistema manifesta (13). Quindi in ultima analisi il problema è tutto aperto da un punto di vista
    scientifico: rimane da capire se i “qualia” della psicologia si possano completamente spiegare su
    basi fisico-molecolari, se gli “zombies” (14) possano esistere, in quanto duplicato di ognuno di noi
    privo di coscienza fenomenologica, e se in ultima analisi il nostro “intimo” sia completamente
    riconducibile alle interazioni più o meno complesse tra le nostre molecole e le nostre molecole e
    l’ambiente.
    Il neonato e anche l’embrione umano, secondo Popper ed Eccles, è già un essere umano, ma non
    sarebbe ancora una persona umana. Secondo loro un essere deve infatti considerarsi umano quando
    la sua costituzione genetica è formata dal pool genetico dell’homo sapiens. Un essere umano si
    trasforma gradualmente in persona, se lo si lascia vivere e crescere.
    Questa distinzione tra individuo di specie umana e persona umana, che comparirebbe grazie
    all’assunzione di un ruolo sociale, oltre ad essere di dubbio valore scientifico potrebbe dare adito a
    legittimare l’esclusione da diritti sociali di chi non avrebbe ancora una vita degna di essere vissuta.
    Invece l’embrione umano è unità in attuazione verso una precisa forma compiuta. Potenza e atto
    restano inscindibili nella sostanza dell’individuo umano, tra generazione e corruzione. Fin dallo
    sviluppo embrionale risulta fondamentale il rapporto del feto con la madre.
    E su questo giudizio di fatto e di valore, oggi più unico che raro, conviene anche Konrad Lorenz,
    quando afferma che: “è dovere primo della scienza e del medico conservare in vita con tutti i mezzi
    a disposizione il neonato venuto al mondo anche con un mese di anticipo, perché è certamente
    contrario all’etica distruggere il feto con l’aborto perché ciò che viene distrutto non è
    semplicemente un embrione in un corpo qualunque, bensì è un uomo fin dal primo secondo del suo
    concepimento, solo che non è perfettamente sviluppato” (15).
  3. Cervello, psiche e libertà di vita e di pensiero umani
    Può servire concepire il cervello come uno strumento. Esso riceve informazioni dall’immenso
    sistema sensorio composto di milioni di fibre nervose che sparano impulsi nel cervello dove
    vengono tradotti in modelli di informazioni codificate, che noi leggiamo ogni momento
    derivandone le nostre esperienze, percezioni, pensieri, idee, ricordi. Ma, come persone viventi ed
    esperienti, non accettiamo passivamente tutto ciò che ci viene fornito dalle strutture neurali del
    nostro sistema sensorio e del nostro cervello.
    Selezioniamo, infatti, dati secondo il nostro interesse e la nostra attenzione e modifichiamo le azioni
    delle strutture neurali del nostro computer per dare inizio a un movimento volontario, per
    richiamare qualcosa alla memoria o per concentrare l’attenzione.
    In che modo il funzionamento del cervello concorre allo sviluppo delle nostre idee? In che modo
    fornisce l’immensa varietà di informazioni codificate, selezionabili dalla mente nella sua attività di
    lettura delle nostre esperienze consce? Grazie a recentissimi lavori sul funzionamento della
    neocorteccia possediamo molte più informazioni riguardo a questi problemi. Le tecniche radio-
    traccianti hanno mostrato che il grande mantello che avvolge il cervello, la neocorteccia, è formato
    da unità o moduli. L’organizzazione modulare ha notevolmente semplificato il tentativo di
    comprendere il modo in cui funziona questa struttura iper-complessa. La prestazione potenziale di
    un network di diecimila milioni di cellule nervose esula da ogni nostra comprensione. Riunendo le
    cellule nervose in moduli formati da circa 4000 cellule ciascuno, si riduce il numero delle unità
    funzionali della neocorteccia a 2/3 milioni.
    Possiamo tuttavia chiederci se 2 o 3 milioni di moduli della neocorteccia siano sufficienti a generare
    i modelli spazio-temporali che codificano l’intera attività conoscitiva del cervello umano: il
    complesso di sensazioni, di ricordi, di espressioni linguistiche, di creatività delle esperienze
    estetiche, per tutta la durata della nostra vita.
    Tuttavia la mente deve essere capace di modificare il tipo di operazioni che si svolgono nei moduli
    del cervello, diversamente sarebbe per sempre impotente.
    Ora è difficile capire come la mente autocosciente possa collegarsi con un’immensa complessità di
    insiemi modulari spazio-temporali. Tuttavia questa difficoltà è attenuata da tre considerazioni.
    Una prima, si deve capire che la mente autocosciente ha imparato a svolgere tali funzioni sin dalla
    prima infanzia “imparando ad usare il proprio cervello”; una seconda, mediante il processo
    dell’attenzione essa seleziona dall’insieme dei modelli modulari i tratti che si accordano con i suoi
    interessi del momento; una terza, la mente autocosciente si impegna ad estrarre un “significato” da
    tutto ciò che legge: il passaggio da un’interpretazione ad un’altra è istantaneo e olistico, ché nella
    lettura dei modelli modulari del cervello operati dalla mente non vi è mai una fase di transizione.
    Elemento chiave dell’ipotesi dualista-interazionista è che l’unità dell’esperienza cosciente è fornita
    dalla mente autocosciente e non dal meccanismo neurale della neocorteccia. Non è stato ancora
    possibile sviluppare una teoria del funzionamento del cervello che spieghi come l’immensa varietà
    degli eventi cerebrali sia sintetizzata in modo da produrre una unità dell’esperienza cosciente.
    Una spiegazione solo materialistica che dà conto delle esperienze consce come effetti del
    funzionamento del cervello non parrebbe sufficiente.
    La convinzione di poter effettivamente prendere decisioni e avere un controllo sulle nostre azioni
    non sarebbe che illusione. Coloro che hanno escogitato ogni tipo di scappatoie per sfuggire a
    questa spiacevole conclusione hanno semplicemente evitato il problema.
    Non a caso anche i filosofi materialisti si comportano come se avessero almeno qualche
    responsabilità delle proprie azioni, quasi che la loro filosofia valesse per le altre persone e non per
    loro stessi.
    Per tale prospettiva noi tutti saremmo strutturalmente incapaci di verità e falsità, bene e male,
    giustizia e ingiustizia, bellezza e bruttezza, perché saremmo tutti determinati a pensare, agire, fare
    quel che pensiamo, agiamo e facciamo, da fattori non tanto storico culturali quanto naturali e
    materiali, di ordine, in successione, genetico-biologico e chimico-fisico.
    Tale ipotesi riduttivistica assume forma paradigmatica nelle affermazioni per le quali “il buono, il
    bello, la forma, il mondo 3 di Popper [ossia il mondo delle creazioni culturali, tra le quali le
    artistiche e le scientifiche hanno un posto rilevante] altro non sarebbero se non antiche e nuove
    illusioni riducibili a una questione di stimoli sulla corteccia cerebrale” (16).
    Ora, questa ipotesi che si presenta come attuale sulla scorta del recentissimo e prodigioso sviluppo
    scientifico e tecnologico delle neuro-scienze, delle scienze del comportamento, delle scoperte
    etologiche in antropologia e sociologia è antichissima, tanto che per rispondere ad essa basterebbe
    riandare a Socrate quando, nel paragrafo XLVII del Fedone, risponde al dubbio di Cebete
    sull’immaterialità intesa come uno dei possibili argomenti per dimostrare l’immortalità dell’anima.
    Infatti in quel paragrafo Socrate si dice deluso del libro di Anassagora nel quale questi,
    contraddicendo se stesso e la sua affermazione basilare del “nous” come “arché” di tutte le cose,
    ricorre anch’egli per spiegarle a cause materiali come aria, etere, acqua… Come se uno per spiegare
    il perché Socrate, che agisce con intelligenza, si trovi seduto in carcere, adducesse la ragione che i
    suoi tendini e ossa e muscoli sono così e così piegati e scordasse che la vera ragione del suo essere
    là è il fatto che desidera obbedire alle leggi della polis. Non bisogna infatti confondere, conclude
    Socrate, la vera e propria causa o ragione di una cosa con il suo “come” o, in altri termini, l’ordine
    dei fattori condizionanti una certa realtà con quello dei fattori determinanti la medesima.
    Ma per venire vicino a noi troviamo in proposito argomentazioni significative e del tutto ad hoc in
    Karl Popper, riguardanti appunto la negazione dell’autonomia ontologica ed etica dell’esperienza
    umana (17).
    “È evidente – afferma Popper – che tutto questo è assurdo e tale assurdità è ancora più evidente se
    applichiamo il metodo della predizione fisica e determinista. Infatti secondo il determinismo,
    qualsiasi teoria come appunto il determinismo, si sostiene grazie ad una determinata struttura fisica
    di colui che la sostiene o meglio del suo cervello. Di conseguenza noi inganniamo noi stessi e siamo
    determinati a questo ogni qualvolta crediamo che esistano cose come argomentazioni e ragioni che
    ci fanno accettare il determinismo” (18).
    Tali considerazioni conducono all’ipotesi antitetica, dualista e interazionista, esposta nel libro L’io
    e il suo cervello (19). Questa in realtà è la vera concezione del senso comune, secondo il quale
    siamo composti di due livelli o entità, distinti nell’unità della nostra persona: il nostro cervello da
    un lato e il nostro io cosciente o pensiero dall’altro.
    La funzione dell’io è di importanza centrale per tutte le nostre esperienze consapevoli durante tutta
    la nostra vita da svegli. Colleghiamo il nostro io nella memoria sin dalle prime esperienze
    consapevoli. L’io ha un’esistenza inconscia durante il sonno e almeno parzialmente nei sogni, ma al
    risveglio lo recuperiamo e lo colleghiamo al passato tramite la continuità della memoria.
    Senza memoria non esisteremmo come persone capaci di esperienza. Siamo così di fronte al
    problema riconosciuto tra gli altri da Cartesio stesso: come possano interagire mente cosciente e
    cervello.
  4. Alcune ipotesi relative al problema cervello-mente
    Le teorie sulla relazione mente-cervello sostenute oggi dalla maggior parte di filosofi e
    neuroscienziati sono materialistiche, attribuendo al cervello la completa supremazia di cui il
    pensiero sarebbe mera secrezione come la bile dalla cistifellea.
    Alcuni ritengono che il complesso meccanismo neurale del cervello funzioni in modo
    materialisticamente determinato, come un meccanismo, a prescindere da una consapevolezza di
    conoscere come da qualsiasi tipo di conoscenza, in termini di soli input e output. Per fare un
    esempio: per tradurre da una lingua ad un’altra, noi cerchiamo di capire che cosa avesse in mente
    l’autore e, quando crediamo di averlo capito, cerchiamo di esprimerlo nell’altra lingua; invece il
    programma del computer si limita a trasformare una sequenza di stati fisico-chimici in un’altra
    sequenza che, per il programmatore e per l’utente, corrispondono ai segni dei nostri linguaggi. Le
    regole usate oggi dal calcolatore per elaborare i dati, limitate a sequenze di stati acceso-spento (1,
    0), seguono l’algebra di Boole su una matematica a base binaria, che corrisponde alla logica
    formale proposizionale dell’uomo. Questo accentua l’apparenza antropomorfa di questi processi, la
    cui descrizione può venire data senza ricorrere al concetto di conoscenza.
    Il limite della macchina è l’esigenza di arrivare all’output evitando un processo senza fine, mentre
    la matematica umana ha molta familiarità con processi all’infinito. Questo obbliga la macchina a
    fermarsi approssimando, e proprio questo fatto fece scoprire il problema della complessità, quando
    ci si accorse che anche minime differenze potevano produrre effetti diversissimi ed anche contrari
    tra loro. Il venir meno del determinismo meccanicista tipico dei primi secoli dalla rivoluzione
    scientifica di Galileo, ha aperto la ricerca al mondo del caos, deterministico o meno, ed alle teorie
    sulla complessità e l’emergenza di caratteristiche non riducibili alle proprietà delle parti di un tutto,
    cercando di spiegare in questo modo quelle che chiamiamo conoscenza, intelligenza, coscienza.
    Sembra però permanere l’atteggiamento di limitarsi alla considerazione di input ed output, il che,
    nel confrontare il comportamento della macchina e dell’uomo, porta a domandarsi se si possa
    attribuire conoscenza, intelligenza e consapevolezza del proprio conoscere alla macchina così come
    li attribuiamo all’uomo (cfr. il test di Turing), anche se non siamo capaci di definire queste ultime.
    In antitesi a queste teorie materialiste si pongono le teorie interazioniste dualiste, di tipo platonico o
    cartesiano. Loro principale caratteristica è considerare mente e cervello come due entità
    indipendenti, e tra loro interagenti. In opposizione al monismo materialista e alle teorie dualiste
    (anche quelle contemporanee di Popper ed Eccles), Gianfranco Basti propone la soluzione duale
    della unità psicofisica dell’uomo, che si ispira ad Aristotele e a San Tommaso (20).
    Molto interessante a questo proposito è la teoria avanzata dal fisico Federico Faggin che, oltre che
    essere il padre dei microprocessori, da anni si sta occupando del problema della coscienza. Nel suo
    ultimo libro: “Irriducibile” (21), avanza l’ipotesi che la natura fondamentale della realtà sia
    costituita da una parte immateriale con due aspetti complementari e irriducibili: lo spazio-C, che è
    lo spazio semantico soggettivo della coscienza, e inseparabile da esso, lo spazio-I simbolico
    oggettivo che contiene l’informazione viva in cui le unità di coscienza traducono in simboli
    (artistici, linguistici o formalizzati con la matematica per esempio tra gli umani) una parte del
    significato per comunicare tra di loro. Lo spazio-F è il mondo fisico sperimentato dalla coscienza,
    che dipende dai sensi di cui è dotata la specie di organismo in cui essa è “incarnata”e dai suoi
    qualia. Si noti però che nel pan-psichismo di Faggin (teoria QIP) c’è un livello di coscienza
    presente in ogni ente, dalla particella elementare subatomica all’essere umano.
    Le argomentazioni che avanza sono basate sulla profonda connessione tra la teoria
    dell’informazione e la meccanica quantistica e sulla irriducibilità dello stato di coscienza. I suoi
    studi sono ancora in corso in collaborazione con il prof. D’Ariano.
    Un autorevole precedente, che conferma aspetti importanti delle opinioni di Faggin, è rappresentato
    da quanto sir John Eccles (22) dichiarò in una intervista rilasciata a Pier Alberto Bertazzi nel corso
    del Meeting di Rimini del 1986:
    […. Il più grande dei doni, nella nostra vita mentale, è l’immaginazione. Non pensate che sia
    l’intelligenza, non fatevi imbrogliare. Il materialismo riduttivo voleva fare di noi tutti delle
    macchine, programmate dal calcolatore o sul calcolatore. Beh, io stesso l’ho chiamato
    “materialismo promettente”, che non mantiene le proprie promesse, poiché le risposte che
    non potremo mai avere dimostrano che il cervello è un materiale che funziona in modo
    meraviglioso, fra i più incredibili nella natura. Parallelamente, non potremo mai fare dei
    modelli del cervello. Ogni essere umano è un mistero che non potrà mai essere spiegato con
    la sola scienza. Non fatevi spaventare dalle pretese di alcuni scienziati che dicono che tra
    poco tutto verrà ridotto a modello, spiegato in termini matematici; dobbiamo riprendere i
    nostri destini, il nostro coraggio. Il Mistero ultimo sta di fronte a noi, che viviamo fin da ora
    questo Mistero, e dobbiamo essere felici di viverlo. Invece di cercare un mondo di fatti
    spiegabili, dobbiamo vivere nel mondo al di là del mondo, nel mondo della filosofia, del
    pensiero religioso, della poesia. Il cervello è la base per questo, ma non è tutto.
    Sullo stesso registro si pone Popper per il quale il materialismo promettente deriva dai progressi
    delle neuroscienze sulla comprensione dei collegamenti tra i processi cerebrali e la percezione, la
    memoria, il controllo dei movimenti e gli stati di coscienza e di incoscienza. Tali ricerche, di chiara
    impronta riduttivistico-materialista, hanno l’obiettivo di spiegare in maniera esaustiva e coerente il
    modo in cui l’intera attività e l’esperienza di un essere umano o di un animale possono essere
    comprese in base all’azione dei meccanismi neurali del cervello.
    Si tratta invero di programmi altamente ambiziosi dai quali ci si aspettano risultati importanti.
    Rimane peraltro il dubbio sul rigore scientifico di un procedimento che parte dall’assunto della
    equivalenza completa tra stati neurali del cervello e attività psichiche. Si noti infatti che:
    “Tra alcune specie di mammiferi, in riguardo al volume cerebrale, esistono numerose
    differenze evolutive. Per esempio, consideriamo due felini: il gatto selvatico e la tigre.
    Nonostante che il cervello della tigre sia molto più voluminoso di quello di un gatto selvatico,
    il relativo comportamento e le capacità cognitive dei due felini sono quasi identici e rimasti
    cristallizzati nei secoli. All’evoluzione cerebrale (in particolare del volume cerebrale) tra
    specie affini, non corrisponde differenziazione comportamentale e cognitiva” (23).
    Ciononostante, il materialismo promettente sostiene che il progresso scientifico restringerà sempre
    più il numero di fenomeni che sembrano richiedere una spiegazione mentalista, sì che alla fine si
    potrà spiegare ogni cosa nei termini materialisti delle neuroscienze e la vittoria del materialismo sul
    mentalismo sarà completa.
    A tale proposito Popper ipotizza il seguente scenario futuro:
    “la vittoria [del materialismo promettente] potrà verificarsi pressappoco così. Con il
    progredire della ricerca sul cervello è probabile che il linguaggio dei fisiologi penetri sempre
    più nel linguaggio ordinario e modifichi la nostra immagine dell’universo, compresa quella
    del senso comune.
    Parleremo quindi sempre meno di esperienze, percezioni, pensieri, credenze, progetti e scopi,
    e sempre più invece di processi cerebrali, di disposizioni a comportarsi e di comportamento
    manifesto. In questo modo il linguaggio mentalista passerà di moda e verrà usato soltanto
    nelle relazioni storiche, oppure metaforicamente o ironicamente. Raggiunto questo stadio, il
    mentalismo sarà morto e il problema della mente e del suo rapporto con il corpo risolto.
    In passato questo fenomeno si è verificato innumerevoli volte con la riduzione di entità e fatti
    al rango di superstizioni o miti.
    La stessa cosa, ci viene promessa, accadrà con il linguaggio della mente: forse non proprio
    prestissimo, forse neppure nello spazio di vita dell’attuale generazione, ma abbastanza
    presto”.
    A tale riguardo la critica di Eccles e Robinson è radicale:
    “Ora noi consideriamo il materialismo promettente una superstizione senza fondamento
    razionale. Più cose scopriamo sul cervello più siamo in grado di distinguere con chiarezza
    gli eventi cerebrali dai fenomeni mentali e più straordinari ci appaiono ambedue. Il
    materialismo promettente è soltanto un credo religioso sostenuto da materialisti dogmatici
    che spesso confondono la loro religione con la loro scienza: una filosofia ingenua! Esso
    possiede tutti i tratti di una profezia messianica, la promessa di un futuro libero da ogni
    problema, una specie di Nirvana per i nostri sfortunati successori come scrive ironicamente
    Gunther Stent nel suo libro The coming of the golden age” (24).
    La strada corretta, secondo Popper, è invece quella di adottare un genuino atteggiamento scientifico
    per far sì che i problemi sopra descritti si rivelino una miniera inesauribile di stimoli per
    raggiungere una comprensione sempre più vasta e più profonda della natura di noi stessi.
  5. Valutazione critica delle ipotesi cervello mente
    Le varie forme di materialismo sostengono l’accordo tra le loro teorie circa il rapporto cervello-
    mente e leggi delle scienze naturali come oggi le conosciamo. Tale pretesa è falsificata dalle due
    considerazioni di un certo rilievo seguenti:
    1) le leggi della fisica e delle scienze derivate, chimica e biologia, non fanno alcun riferimento alla
    coscienza o alla mente, tranne che nel problematico ruolo dell’osservatore nei sistemi quantistici;
    2) nel complesso apparato chimico, elettrico e biologico non vi è alcuna asserzione in leggi naturali
    che indichi l’emergere di strane entità immateriali come coscienza o mente.
    Questo non significa che la coscienza non emerga nel processo evolutivo, ma che la sua comparsa
    non si deduce dalle leggi naturali nel modo oggi concepito dalla scienza.
    Esse ad esempio non consentono di affermare che i livelli superiori della coscienza emergano a un
    livello specifico di complessità sistematica come vorrebbero i materialisti, eccetto quelli radicali e
    pan-psichisti. L’ipotesi pan-psichista secondo la quale in tutta la materia, e presumibilmente negli
    atomi e nelle particelle sub-atomiche, risieda una qualche forma primordiale di coscienza -[vedere
    teoria QIP di Faggin in (21)]- non trova alcun fondamento nella fisica.
    A tale proposito vale la pena di osservare che secondo la Teoria Quantistica dei Campi (QFT),
    teoria ormai fortemente consolidata nella fisica contemporanea di cui il Modello Standard delle
    Particelle Elementari è la realizzazione che osserviamo in natura, le particelle elementari sono viste
    come stati eccitati dello stato vuoto di un dato tipo di particella ad opera del corrispondente campo
    quantistico.
    Ora questo stato vuoto obbedisce al principio di indeterminazione di Heisenberg secondo il quale
    non possono essere zero, simultaneamente, la durata della sua esistenza e l’energia, dando luogo
    alle cosiddette fluttuazioni quantistiche del vuoto. Nel Modello Standard queste si possono
    visualizzare come un brulichio continuo di coppie particella-antiparticella (elettrone-positrone,
    quark-antiquark, ecc.) che normalmente si annichilano l’un l’altra in tempi brevissimi, durando
    quanto permette il principio di indeterminazione. Talvolta però una terza particella (per es. un
    fotone) può colpire la coppia e cederle l’energia necessaria per ‘promuoverla’ al rango di coppia di
    particelle reali.
    Dunque, a fondamento del fenomeno dell’emergenza della materia, non stanno solo la massa-
    energia associata alle particelle bensì i loro campi quantistici che, fornendo le regole sulla loro
    comparsa sono non materia ma piuttosto informazione, e tale informazione appartiene alla sfera
    dell’immateriale. Tutto ciò indica una forma di causalità della materia che emerge dallo spirito,
    assegnando pertanto al mentale, in questo rapporto cervello-mente, lo status di primum.
    Si può anche menzionare il problema posto acutamente dai fans dei computers: a quale livello di
    complessità e attività saremmo disposti ad attribuire coscienza a un computer?
    A questa domanda carica di significato emotivo si può rispondere negativamente che possiamo
    fare ciò che vogliamo ad un computer senza che ci assalga lo scrupolo di essere crudeli. Esso –
    vedi il già citato lavoro (21) di Federico Faggin- è una semplice cosa o artifizio umano, che
    compie operazioni inimmaginabili per l’uomo, pur non sapendo né che cosa fa né perché,
    mancando tale “cosa” sia di percezione che di appercezione auto-consapevole, se non quella in
    essa operativamente inserita dall’uomo.
    Tutte le teorie materialiste della mente sono in conflitto con l’evoluzione biologica in quanto tutte
    asseriscono l’inefficacia causale della coscienza simpliciter, non fornendo alcuna spiegazione della
    crescita evolutiva della coscienza che, come fatto, è innegabile. La comparsa della coscienza infatti
    è in relazione con un progressivo sviluppo accompagnato da una crescente complessità del cervello.
    Secondo la prospettiva evoluzionista nella selezione naturale, caratterizzata da specifici adattamenti,
    si svilupperebbero soltanto strutture e processi finalizzati alla mera sopravvivenza.
    Se la coscienza è impotente dal punto di vista causale il suo sviluppo non può spiegarsi dalla teoria
    dell’evoluzione. In base ad essa stati mentali e coscienza avrebbero potuto evolversi e svilupparsi
    soltanto se avessero rivelato efficacia causale, atta a produrre cambiamenti nella attività neurale del
    cervello e di conseguenza nel comportamento. Questo è quanto afferma la teoria duale secondo la
    quale il cervello è aperto a influenze degli eventi mentali che appartengono al mondo delle
    esperienze consce.
    La critica più efficace che si può rivolgere a tutte le teorie materialiste della mente riguarda il loro
    postulato chiave per il quale l’attività neurale del cervello fornisce una spiegazione necessaria e
    sufficiente sia dell’attività sia dell’esperienza conscia di un essere umano. Esse ritengono ad
    esempio che l’esecuzione di un movimento volontario come anche qualsiasi altra esperienza
    volitiva sia completamente determinata da eventi nell’apparato neurale del cervello.
    Si ragiona in termini che riducono la spiegazione a causa efficiente che trasforma e materiale che
    viene trasformato. In realtà il discorso andrebbe ampliato. Scrive Norbert Wiener (25): “La
    retroazione […] è una caratteristica assai generale di tutte le forme di comportamento. Nella sua
    forma più semplice, il principio di retroazione significa che il comportamento viene periodicamente
    confrontato con il risultato da conseguire, e che il successo o il fallimento di questo risultato
    modifica il comportamento futuro.”
    Nota in proposito Eugenio Sarti, commentando questa citazione (26): “Così il discorso di Wiener
    introduce relazioni mezzo-fine in un mondo tecnico che era abituato a ragionare
    (meccanicisticamente, direbbe Husserl) soltanto in termini di rapporti causa-effetto.”.
    In sede critica, notiamo che anche in Popper e nel suo confutare il materialismo è in atto e
    adoperato il principio di identità e non contraddizione il quale mostra che mentre si nega una tesi lo
    si fa affermando la stessa, auto-confutandosi.
    Ne viene una vera e propria riduzione all’assurdo: critica applicabile a tutte le teorie
    materialistiche:se tutto fosse materia, anche tale affermazione si ridurrebbe a una decalcomania
    tautologica. Tutto è materia perché frutto di materia, il che ci costringe a prendere in considerazione
    la spiegazione dei rapporti mente-cervello proposta dalla teoria integrazionista e dualista, pur se
    essa avanza la richiesta che vi sia comunicazione reciproca in entrambe le direzioni.
    Merita di essere presa in considerazione la teoria duale e non materialista di Gianfranco Basti:
    Dell’antropologia duale viene offerta anche una fondazione fisico-matematica basata sulla
    distinzione energia-informazione, che definisce il vivente e l’uomo in particolare come un sistema
    “aperto” in continuo scambio reciproco di energia e informazione con l’ambiente fisico e
    interumano. Questo fa sì che la mente e le sue funzioni superiori (intelletto e volontà) si collochino
    non “nel” cervello, ma nell’interfaccia del cervello col proprio ambiente, dando alla nozione di
    “persona” come individuo aperto alla relazione intersoggettiva una fondazione che – contro la
    schizofrenia moderna dei dualismi tra “materia” e “spirito”, fra “fisico” e “metafisico”, fra
    “scienza” e “umanesimo” – è in grado di abbracciare in una sintesi armoniosa il meglio della scienza
    moderna con il nucleo delle grandi tradizioni metafisiche, al di qua delle successive distinzioni di
    fede e cultura.
  6. L’unità dell’io
    La presenza di un’unità mentale che ognuno di noi riconosce come continua, sin dai primi ricordi è
    un’esperienza soggettiva universale ed essa è la base del concetto dell’io. Alcune ricerche
    sperimentali sull’unità dell’io sono state discusse nel libro La psiche umana di Eccles (Springer
    International, 1980).
    Come il neuropsicologo Robinson [Cfr. (16) e (28)] ha mostrato altrove (27) il tentativo di
    identificare l’io con la memoria e la continuità dei ricordi incontra molte insuperabili obiezioni. Un
    paziente colpito da amnesia totale può non ricordare chi egli sia, come qualunque altra cosa della
    sua vita precedente, ma di sicuro sa, perché lo vede, che egli è e quindi sa di avere una personalità.
    Ancora, che una persona ricordi di aver fatto qualcosa non dice che essa l’abbia fatta veramente,
    perché i ricordi possono essere difettosi e anche illusori. Ergo, l’io non è di certo identico alla
    memoria. Da qui la necessità di distinguere tre concetti di io: il concetto di io, di auto-identità, di
    identità personale, dunque tre modalità coscienziali. L’io e la sua unità nascono dall’irriducibile
    consapevolezza di essere, di conoscere e di volere, cioè di intendere il vero e di volere il bene.
    Ognuno è consapevole di essere e sa che tutte le sue esperienze, ricordi, pensieri e desideri
    ineriscono a questo stesso io originario.
    L’auto-identità riguarda invece la conoscenza di chi siamo e si basa principalmente sulla memoria.
    Ergo un dato io, affetto da amnesia, può non avere auto identità. Infine l’identità personale si
    riferisce alla conoscenza che gli altri hanno di chi sia una data persona che incontrano
    nell’esperienza come diversa da qualsiasi altra.
  7. Unicità di ciascun io
    Senza dubbio ogni persona umana riconosce la propria unicità rispetto agli altri. Quando
    ricerchiamo i fondamenti di tale consapevolezza la neurofisiologia non è ancora in grado di dare
    una risposta.
    Restano solo due possibilità: il cervello e il mentale. I materialisti accetteranno la prima mentre i
    dualisti interazionisti considereranno l’io e il mondo psichico come l’entità che ha esperienza di
    unicità.
    La soluzione solipsistica dell’unicità dell’io è fuori gioco perché l’esistenza di altri io è attestata
    dalla comunicazione inter-soggettiva.
    Se attribuiamo l’esperienza di ciascun io alla unicità del suo cervello costruito secondo le particolari
    istruzioni genetiche dei suoi genomi, come è stato mostrato dalle argomentazioni di Eccles,
    Jennings, Thorpe, ci troviamo di fronte a una lotteria genetica dalla quale è derivato il genoma di
    ciascuno. E’ inoltre impossibile spiegare l’unicità che ciascuno di due gemelli omozigoti esperisce
    nonostante l’identità dei due genomi.
    A questo enigma alcuni rispondono che il fattore determinante è l’unicità delle esperienze vissute da
    ciascuno durante la sua vita. Si può ammettere che il nostro comportamento, i nostri ricordi e
    l’intero contenuto della nostra vita interiore cosciente dipendano dalle esperienze accumulate nel
    corso della vita. Tuttavia, per quanto radicale sia il cambiamento che può verificarsi nelle diverse
    contingenze di momenti decisivi, ciascuno di noi rimane ancora il medesimo io, consapevole della
    propria esistenza.
    Ora, se le soluzioni materialiste non spiegano l’unicità esperita da ognuno di noi, Eccles osserva che
    siamo costretti ad attribuire l’unicità della psiche o dell’anima ad una creazione spirituale di natura
    quindi metafisica (28).
    Per dare la spiegazione in termini teologici e metafisici, nel momento della generazione c’è anche
    l’intervento creatore di Dio (29). È questa una certezza di ordine metafisico del nucleo più intimo
    dell’individualità che rende necessaria la “creazione divina”. Non un’estrapolazione indebita di
    livelli conoscitivi, ma una vera “metabasis eis to allo ghenos” imposta dalla conoscenza della realtà
    effettiva.
  8. Il metodo di Pascal quale “metodo del paradosso”o dimostrazione per assurdo
    Si può aggiungere a sostegno dell’ipotesi creazionista dell’anima della persona umana il metodo del
    paradosso o dimostrazione per assurdo di Pascal.
    Come scrive al riguardo E. Cassirer in La filosofia dell’illuminismo (30), la paradossalità della
    metodica di Pascal, il contrasto fra risultato e procedimento mediante il quale viene raggiunto,
    appaiono evidenti. L’incomprensibile – in questo caso il mistero del male e del peccato originale – si
    rivela come condizione necessaria dello stesso “intelligere”. Questo argomento, prosegue lo
    studioso tedesco, Pascal lo desume dalla medesima sua esperienza scientifica: cioè il concetto che,
    nel campo delle verità di fatto, quello che decide della validità di un’ipotesi o di una teoria non è la
    sua intrinseca intelligibilità, ma la sua capacità di dar ragione dei fenomeni (31). Analogamente
    quello dell’anima umana è certo un fatto incomprensibile sul piano fenomenico e scientifico, ma è,
    d’altro canto, una dottrina capace di spiegare duplicità e contraddittorietà dell’uomo.
    Rifiutarsi di ammetterne la possibilità significa rinunciare ad una proposta per rendersi conto della
    realtà data e quindi contraddire gli stessi principi della ragione (32).
  9. Conclusione
    Per coscienza e consapevolezza di sé non intendiamo qualsiasi capacità di conoscere le proprie
    conoscenze, come qualsiasi vivente dotato di memoria è capace di fare. Intendiamo una capacità di
    conoscere capace di cogliere il proprio agire e pure l’agire delle altre capacità di conoscere. Platone
    notava che la vista non può vedere il suo atto, che non è colorato (Carmide, 167 d). La capacità di
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    conoscere qualcosa solo perché è qualcosa è invece consapevole del proprio agire, che è qualcosa.
    La chiamiamo “intelletto”.
    L’intelletto umano è fatto per conoscere ciò che può osservare coi sensi. Conosce giudicando, e ciò
    che conosce di ciò che studia è espresso da nomi atti ad essere predicati anche di altri soggetti: nomi comuni (o “universali”), che ci permettono di ragionare. Per questo fu chiamato “ragione”. Le
    proprietà del ragionare non sono proprietà dell’intelletto in quanto tale, ma dell’intelletto umano.
    Da millenni gli uomini hanno parlato di intelligenze non umane, che conoscono senza giudicare e
    sono presenti a se stesse. Non è corretto parlare di “Intelligenza artificiale”. Si dovrebbe dire
    “Razionalità artificiale”.
    La coscienza come “irriducibile” fattore umano, per dirla con Faggin, darebbe torto, tra gli altri, a
    Nietzsche quando sostiene che l’umanità è un pregiudizio di cui gli altri animali sono felicemente
    privi. Come d’altra parte falsificherebbe l’invito riduttivista a liquidare la questione coscienza con
    Skinner, quando questi afferma che: “un io è un repertorio di comportamenti appropriati a un
    determinato insieme di contingenze per le quali all’uomo in quanto uomo diciamo volentieri buon
    viaggio” (33).
    Molto infatti, se non quasi tutto, ci dice che così non è né può essere e che la negazione della
    coscienza in generale, intesa come consapevolezza e auto-consapevolezza delle cose tutte e come
    coscienza morale in particolare, equivarrebbe all’abolizione dell’uomo nella sua umanità.
    Prospettiva teoreticamente impensabile senza contraddizione e praticamente invivibile senza
    assurdità. Per questo tali briciole di riflessione filosofica chiudono e insieme aprono una ricerca
    sulla coscienza umana e sulle sue forme specifiche. Una ricerca che, sondando l’esperienza
    cosciente nei suoi aspetti biofisici del suo rapporto mente-cervello riesca positivamente a superare,
    se non tutte, almeno le più gravi difficoltà sopra delineate per recuperare l’esperienza della
    coscienza propria della struttura originaria dell’uomo come e in quanto persona umana nella sua
    singolare universalità. In proposito è utile ricordare quanto osserva V. Havel: “Non c’è niente da
    fare: la vera coscienza e la vera responsabilità sono sempre alla fine spiegabili solo come
    un’espressione di una sottile premessa: che, bene o male, siamo veramente osservati dall’alto, che
    lassù si vede tutto e niente viene dimenticato e che, quindi, non è nel potere del tempo di cancellare
    dall’anima il rimorso di essere falliti in questo mondo: infatti la nostra anima intuisce di non essere
    sola a sapere di tale fallimento” (34).
    La coscienza non è soltanto consapevolezza dei nostri fallimenti, ma esprime anche quanto dice
    nell’ “Inno alla gioia” Schiller: “Fratelli sopra il cielo stellato / deve abitare un padre affettuoso /
    […] Cercalo sopra il cielo stellato! / sopra le stelle deve abitare”. La voce della coscienza morale ci
    chiama dunque a rispondere su vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto, a giudicare e decidere
    secondo la libertà del vero bene che rende buoni e giusti, degni di felicità da un oltre rispetto a
    questo mondo che non può non essere che di salvezza e di giustizia, anzi di salvezza nella giustizia.

    INDICE
  10. Coscienza e consapevolezza di sé tra scienza e metafisica
  11. La persona umana
  12. Cervello, psiche e libertà di vita e di pensiero umani
  13. Alcune ipotesi relative al problema cervello-mente
  14. Valutazione critica delle ipotesi cervello mente
  15. L’unità dell’io
  16. Unicità di ciascun io
  17. Il metodo di Pascal quale “metodo del paradosso”o dimostrazione per assurdo
  18. Conclusione
    Note
    (1). Karl POPPER in collaborazione con J. ECCLES, L’io e il suo cervello, 1. Materia, coscienza e cultura, Armando
    editore, Roma 1981, passim.
    (2). Cfr. J. RIES, Preistoria e immortalità, tr. R. Nanini, Jaca Book, Milano 2012.
    (3). I. KANT, Monadologia Physika, in Gesammelte Werke, Berlin, passim.
    (4). Cf nota 1
    (5). G. M. EDELMAN, G.TONONI, A Universe of Consciousness. How matter become imagination, Basic Books, New
    York, 2000.
    (6). G. TONONI, An Information Integration Theory of Consciousness. BMC Neuroscience 5: 42-64, 2004.
    (7). C. MC GINN, The Problem of Consciousness, Blackwell, Basel, 1991.
    (8). J.R. SEARLE, Mind. A Brief Introduction, Oxford University Press, 2004. Ed.it., La mente, Raffaello Cortina
    Editore, Milano, 2005
    (9). K. GÖDEL, Collected works, Vol. III, Oxford University Press, Oxford, 1995.
    (10). J. HAWKINS, S. BLAKESLEE, On Intelligence, Henry Holt, New York, 2004.
    (11). G. ISRAEL, La macchina vivente. Contro le visioni meccanicistiche dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
    (12). Informazioni sul progetto Blue Brain, in corso all’Università di Losanna, sono disponbili al sito HYPERLINK
    “http://bluebrain.epfl.ch/” http://bluebrain.epfl.ch/.
    (13). I. LICATA, La logica aperta della mente, Codice edizioni, Torino, 2008. R. PENROSE, The Emperor’s NewMind:
    Concerning Computers, Minds and The Laws of Physics, Oxford University Press, 1990. Ed.it., La mente nuova
    dell’imperatore, Rizzoli, Milano, 1992.
    (14). D. CHALMERS, The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford, 1996.
    (15). Konrad LORENZ, Salvate la speranza, un testamento spirituale in difesa dell’uomo e della natura, Armenia
    editore, Milano 1989, p. 173.
    (16). J.C. ECCLES – D.N. ROBINSON, La meraviglia di essere uomo, Armando, Roma 1985, p. 72.
    (17). Karl POPPER, Nuvole ed orologi, in Conoscenza oggettiva, pp. 293-294: “l’intero mondo con ogni cosa in esso
    contenuta, è un immenso automa nel quale noi non siamo altro che piccole ruote di ingranaggio o nel migliore dei casi
    dei sub-automi all’interno di esso”. […] “il determinismo fisico – forma di riduttivismo ontologico -, distrugge in
    particolare l’idea di libertà e di creatività. Riduce a una totale illusione l’idea che nel preparare questo saggio, io abbia
    12
    fatto uso del mio cervello per creare qualcosa di nuovo. Questo saggio, secondo il determinismo fisico non implica altro
    se non che certe parti del mio corpo hanno messo dei segni neri su della carta bianca, sicché qualsiasi fisico, provvisto
    di un’informazione sufficientemente dettagliata, avrebbe potuto scrivere il mio saggio attraverso il semplice metodo di
    predire gli spazi precisi su cui il sistema fisico di cui consiste il mio corpo (inclusi, ovviamente, il mio cervello e le mie
    dita) e la mia penna avrebbero messo quei segni neri.”
    (18). Karl POPPER, ibid. p. 294.
    (19). Cfr. nota n. 1
    (20). Cfr. Gianfranco BASTI, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, ESD, Bologna,1991. (cfr. in
    particolare pp.236 ss.)
    (21). Federico FAGGIN, Irriducibile: La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, 2022, p.259.
    Vedere anche le pp. 201 e 225.
    (22). Sir John Carew Eccles (1903 – 1997) è stato autore di scoperte fondamentali sulla fisiologia dei neuroni per le
    quali, nel 1963, ebbe il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia.
    (23). Giuseppe Costantino BUDETTA, Termodinamica, Campi Quantici e Funzioni Mentali. HYPERLINK
    “https://www.neuroscienze.net/2010/06/20/” https://www.neuroscienze.net/2010/06/20/
    (24). Gunther S. STENT, The Coming of the Golden Age, Published for the American Museum of Natural History by
    Natural History Press, Garden City, N.Y., 1969. Cfr. Karl POPPER e J. ECCLES, L’io e il suo cervello, 3 voll., Armando,
    Roma 1981, vol.1, pp. 121-122.
    (25). N. WIENER, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino 1953, p. 84.
    (26). E. SARTI, L’albero senza radici, EDB, Bologna 2001, p. 69.
    (27). D. N. ROBINSON, Cerebral Plurality and the Unity of Self, American Psychologist, Agosto 1982.
    (28). J. C.ECCLES, D. N. ROBINSON, op. cit., p. 54. (Cfr. ARISTOTELE, De generatione animalium, II, 3).
    (29). Ibidem
    (30). Cfr. E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo , traduzione di E. POCAR, Firenze 1935, p. 202-4. Vedi anche B.
    PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, pensiero 456, nota 2 p. 202.
    (31). Ibidem
    (32). Ibidem
    (33). Cfr. B.F. SKINNER, Oltre la libertà e la dignità, Mondadori, Milano 1973, p. 231.
    (34). V. HAVEL, Meditazioni estive, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 14.
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