Martino Sacchi
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- Cosa ci ha lasciato Platone?
- Come possiamo interpretare Platone?
- La molla della politica
- La polemica contro i sofisti
- Come si raggiunge la conoscenza?
- L’allegoria della caverna
- Come si può interpretare l’allegoria della caverna?
- La linea quadripartita
- Il mondo delle eide
- L’anima e la conoscenza delle eide
- La dialettica
- I rapporti tra eide e cose
- La diaresis
- La psyché
- L’eros nel Simposio
- La città giusta
- Il comunismo platonico
- La conoscenza della natura
Platone è uno dei più importanti filosofi dell’Occidente. La sua visione dell’essere, dell’uomo, della conoscenza, della natura, della politica, dell’arte ha condizionato per molti secoli, direttamente o indirettamente, tutta la filosofia, e in un certo senso continua a influenzarla ancora oggi. In certi periodi è stato addirittura identificato con LA filosofia, tanto che un pittore come Raffaello raffigurando agli inizi del Cinquecento nel celebre affresco noto come La scuola di Atene una complessa allegoria della filosofia e anzi della ragione umana in quanto tale, lo colloca al centro della composizione, accanto al suo grande discepolo Aristotele, per indicare il suo ruolo centrale nello sviluppo del pensiero occidentale. Un filosofo inglese della fine dell’Ottocento, Alfred North Whitehead, ha potuto scrivere: «The safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato».
Naturalmente accanto a pensatori che hanno esaltato Platone ce ne sono stati altri che lo hanno contestato: forse uno dei suoi critici più famosi è il pensatore tedesco Karl Popper che nel suo La società aperta e i suoi nemici ha indicato Platone come il padre di tutti i regimi totalitari, insieme a Marx e a Hegel.
In ogni caso la ricchezza e la profondità delle riflessioni di Platone, unite alla bellezza dei testi che le contengono, ne fanno uno dei punti di riferimento fondamentali di tutto il pensiero occidentale.
Cosa ci ha lasciato Platone?
Platone ci ha lasciato un corpus notevole di scritti: 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e una raccolta di lettere. In effetti è l’unico filosofo dell’antichità di cui possediamo l’opera completa: non si ha notizia di opere platoniche andate perdute.
Queste opere sono giunte a noi senza nessuna indicazione cronologica: è impossibile quindi conoscere il momento in cui sono state realizzate. Ciò rappresenta un grave problema, soprattutto per i Dialoghi, perché il pensiero di Platone non è monolitico, cioè fisso e statico, ma si evolve nel tempo per rispondere alle obiezioni che gli venivano mosse. Assume quindi una grande importanza sapere quando le singole opere sono state scritte, o almeno conoscere l’ordine nel quale sono state realizzate. A parte l’Apologia di Socrate, che descrive la difesa di Socrate al processo e che non è un vero e proprio dialogo, e le lettere, che a parte la Settima lettera sono documenti brevi e di trascurabile importante, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sui Dialoghi: è quella che talvolta viene chiamata questione platonica.
Gli specialisti del settore hanno lungamente analizzato i testi sulla base di criteri stilometrici, dell’evoluzione del contenuto concettuale e dei riferimenti a fatti ed eventi noti della storia greca, e hanno stabilito questa sequenza, sulla quale oggi c’è una sostanziale concordanza:
Prima di tutto, dei 34 Dialoghi attribuiti a Platone sei (Epimonide, Alcibiade II, Amanti, Ipparco, Teage e Minosse) vengono oggi considerati spuri. Rimangono quindi 28 dialoghi riconosciuti come autentici. Questi testi si possono dividere in tre gruppi:
Dialoghi giovanili
Sono i dialoghi scritti dopo la morte di Socrate e i viaggi in Italia, fino alla fondazione dell’Accademia, e quindi approssimativamente tra il 395 e il 387 a.C.. Sono dialoghi piuttosto brevi (tra le venti e le trenta pagine nelle versioni a stampa moderne) che si ispirano direttamente alle tematiche socratiche.
Dialoghi della maturità
Vengono scritti dopo la fondazione dell’Accademia e quindi spaziano circa tra il 387 e il 368 a.C. Generalmente sono dialoghi narrati, da Socrate o altri. Viene individuata all’interno di questo gruppo una ulteriore divisione tra un gruppo di dialoghi di transizione tra la fase socratica e un secondo gruppo di dialoghi in cui si manifestano le grandi tematiche platoniche.
Dialoghi dialettici
Sono scritti nell’ultima fase della vita di Platone (365-347 a.C.) e contengono le riflessioni sui temi più difficili e complessi del pensiero del filosofo.
Come possiamo interpretare Platone?
Nei secoli si sono prodotte numerose interpretazioni del pensiero di Platone.
• La prima, legata alla corrente filosofica del neoplatonismo, vede in Platone essenzialmente una problematica religiosa e metafisica;
• la seconda, sviluppata soprattutto nel corso dell’Ottocento, insiste sulle teorie gnoseologiche e ontologiche come chiave di lettura fondamentale
• la terza vede nel tema della politica, e in particolare della giustizia, l’energia fondamentale del suo pensiero
• una quarta interpretazione infine, la più recente di tutte, si rifà alle cosiddette «dottrine non scritte»
La molla della politica
[mappa del pensiero di Platone]
Platone era perfettamente inserito nella cultura ateniese e da giovane, come tutti suoi coetanei, aspirava a una vita politica che lo portasse a una posizione di evidenza nella città. A questo destino sembrava condurlo anche il suo DNA, per così dire, dal momento che era discendente per parte di padre da Solone, il primo legislatore ateniese, e per parte di madre da Codro, l’ultimo re di Atene.
Invece la strada di Platone fu diversa da quella dei suoi compagni.
L’esperienza del degrado politico di Atene fu la molla che convinse Platone della necessità di una nuova fondazione politica, non più basata sulla tradizione o sulla nuova forza della ricchezza, ma sulla filosofia.
Lui stesso ci racconta questa «conversione» in un documento famoso e importante, la cosiddetta Settima lettera.
In questo testo Platone mette a fuoco uno dei dilemmi più importanti di tutta la riflessione filosofica occidentale, ossia il contrasto tra la ricerca della verità e il potere, e propone la sua soluzione, imperniata sulla figura del re-filosofo:
ha diritto a governare solo colui che conosce ciò che è bene per sé e per gli altri cittadini. La conoscenza quindi è l’unico autentico fondamento del potere.
La polemica contro i sofisti
La cultura ateniese della fine del V secolo era dominata dai grandi sofisti come Protagora e Gorgia che proponevano un’idea di sapere e di politica completamente diversa da quella socratica.
Per i sofisti non esiste la possibilità di giungere alla verità (anzi, la verità stessa non esiste). Quello che rimane è dunque la possibilità di usare la parola per persuadere gli interlocutori ad accettare la propria posizione, senza che questa possa per altro pretendere di essere migliore delle altre.
La sofistica eristica spinge questa posizione alle estreme conseguenze, riducendo il dibattito filosofico a una semplice schermaglia linguistica finalizzata a stupire il pubblico di spettatori.
Platone entra subito in polemica sia con i sofisti eristici (di cui condanna la mancanza totale di una finalità etica e di ricerca) sia con i sofisti maggiori e proprio sul punto centrale del loro insegnamento.
Platone infatti sostiene la possibilità di costruire un sapere rigoroso e fondato (in greco episteme) che sia a sua volta la base su cui ricostruire la vita associata.
Il problema politico si trasforma quindi per lui in un problema filosofico: la domanda «come è possibile costruire una società giusta?» si trasforma nella domanda «come è possibile costruire un sapere vero?»
Come si raggiunge la conoscenza?
Se la conoscenza è il fondamento del potere, si tratta allora di capire se e come è possibile ottenere una conoscenza stabile e certa. La nuova e originale posizione platonica si forma alla intersezione tra l’esperienza socratica e quella pitagorica.
Socrate infatti, maestro e amico di Platone, aveva dimostrato la possibilità, tramite ironia e maieutica, di raggiungere l’omologhia, ossia l’accordo razionale sulle premesse del ragionamento.
I primi dialoghi scritti da Platone rispecchiano questa convinzione, e insieme sembrano indicare il desiderio di Platone di oltrepassare le posizioni di Socrate, soprattutto cercando un fondamento della filosofia socratica.
Durante il primo viaggio in Italia Platone scopre la matematica come sapere rigoroso, capace di obbligare il pensiero ad accettare anche tesi contrarie all’esperienza sensibile (come per esempio l’incommensurabilità del lato e della diagonale, implicita nel teorema di Pitagora).
La somiglianza di queste esperienze, pur così lontane, convince Platone che esiste per entrambe una condizione di possibilità comune. Su questa base il filosofo ateniese costruisce una delle più importanti e significati visioni del mondo prodotte dalla cultura greca ed occidentale.
L’allegoria della caverna
Nella sezione centrale di uno dei dialoghi più importanti, la Politeia, Platone raccoglie in un solo, complesso racconto i molti aspetti della sua riflessione.
La condizione degli uomini, dice Platone, assomiglia a quella di persone costrette sin dall’infanzia a vivere nel fondo di una caverna molto profonda e obbligati dalle catene a guardare solo verso il fondo della caverna. Dietro i prigionieri c’è un terrapieno su cui corre una strada, chiusa da un muretto. Dietro la strada c’è un fuoco e sulla strada passano delle persone che trasportano sulle spalle ogni genere di oggetti.
I prigionieri vedono solo le ombre di questi oggetti, proiettate sul fondo della caverna, e sono inevitabilmente condotti a credere che proprio le ombre siano la vera realtà.
Ma se uno dei prigionieri, per caso, riesce a liberarsi e a voltarsi indietro, prima di tutto si accorge che quello che fino a quel momento ha creduto essere la «vera realtà» non è altro che ombra e illusione prodotta dal fuoco e dagli oggetti trasportati sul terrapieno; se poi riesce a risalire fino all’aperto, scopre che anche questi oggetti non sono altro che la copia di ciò che sta fuori dalla caverna, che è la vera, autentica realtà.
Chi è giunto a contemplare il mondo esterno, con la sua luce e i suoi colori, deve secondo Platone ritornare nella caverna per cercare di salvare i suoi compagni. Qui però l’attende una sorte imprevista e spiacevole: chi è rimasto in fondo alla caverna infatti non vuole credere a chi è uscito dalla caverna, anzi lo deride e lo perseguita, giungendo perfino a ucciderlo.
Come si può interpretare l’allegoria della caverna?
Nel racconto della caverna Platone costruisce una simmetria molto forte tra i vari aspetti dell’allegoria e le tappe dell’esistenza umana. La narrazione descrive prima di tutto una situazione (quella degli uomini in generale) e poi una storia (quella di un uomo in particolare che riesce a cambiare la propria situazione).
La prima distinzione da fare è quella tra esterno e interno: il mondo fuori dalla grotta è quello della luce e della verità, che possono essere raggiunte con la conoscenza razionale, mentre l’interno della caverna con la sua oscurità simboleggia la conoscenza incerta o falsa che può essere data dalla conoscenza dei sensi .
Questa distinzione non vale solo sul piano gnoseologico, ma anche su quello ontologico: ciò che sta all’interno della caverna ha «meno essere»”, per così dire, di ciò che sta fuori, esiste in modo meno autentico e vero.
La simmetria tra conoscenza e essere è fondamentale in Platone, perché serve a giustificare la differenza qualitativa dei due tipi di conoscenza: la conoscenza intellettiva è «qualitativamente» superiore rispetto a quella fornita dai sensi proprio perché permette di cogliere un livello di realtà ontologicamente superiore rispetto al livello di realtà colto dai sensi.
La divisione tra esterno e interno della caverna corrisponde quindi in definitiva alla divisione tra episteme e doxa, ossia tra sapere rigoroso e fondato da una parte e semplice opinione dall’altra.
La condizione degli schiavi incatenati corrisponde alla condizione nella quale si trovano normalmente tutti gli uomini, portati naturalmente dalla situazione e dalle convenzioni sociali a ritenere che la autentica realtà sia quella delle apparenze proiettate sul fondo della caverna.
Platone non dice esattamente come ci si può liberare da questa condizione: allude solo a una «sorte divina». Certo è che colui che si libera dalle catene è chiamato a un lungo e difficile cammino, simboleggiato dalla salita lungo l’erta della caverna. Infatti egli deve
• riconoscere che gli oggetti trasportati sulle spalle dagli uomini sulla strada sono la causa delle ombre che vedeva sul fondo della caverna, e quindi accettare il fatto che tali oggetti siano più reali di ciò che fino a quel momento aveva creduto fosse l’unica realtà
• superare anche il terrapieno e uscire all’aperto, ossia abbandonare il mondo conosciuto dai sensi adattarsi alla sua nuova condizione, guardando la realtà più in ombra e attraverso dei «riflessi»
• riconoscere che tutti gli oggetti contenuti nella caverna erano solo copie degli oggetti fuori della caverna
• infine, una volta che la vista si è abituata, rivolgere lo sguardo in alto e vedere il sole, che è causa dell’essere e della conoscibilità di tutte le cose
La linea quadripartita
Platone stesso subito dopo aver presentato il mito del caverna riformula le stesse tesi sul piano gnoseologico con l’immagine della cosiddetta «linea quadripartita».
Si tratta di una immaginaria linea verticale, divisa in due segmenti:
• quello inferiore rappresenta la doxa, ossia la conoscenza sensibile caratterizzata dalla mutevolezza e che cambia continuamente sia nel tempo sia a seconda dei singoli soggetti conoscenti
• quello superiore rappresenta l’episteme, ossia il sapere rigoroso e fondato caratterizzato dalla stabilità, dalla immutabilità e dalla trasmissibilità.
Ciascun segmento però a sua volta diviso in due parti:
• eikasia, ossia la conoscenza vaga, attraverso i sensi, di un oggetto che non gode di chiara evidenza (per esempio, eikasia è la conoscenza che si può avere di una persona molto lontana in condizioni di luce insufficienti, oppure quella di un’automobile che ci sfrecci accanto velocissima). Eikasia viene tradotta a volte con «immaginazione» ma si tratta di un traduzione alquanto fuorviante perché in italiano questa parola indica soprattutto la capacità di produrre delle immagini in modo spontaneo, mentre per Platone indica come abbiamo detto la forma più incerta e vaga di conoscenza sensibile.
• pistis, cioè la conoscenza attraverso i sensi di un oggetto che via posto nelle migliori condizioni possibili per essere esaminato (distanza, illuminazione, prospettiva e così via). È un grado di conoscenza senz’altro più sicuro e valido della eikasia, ma rimane anch’esso abitato dalle caratteristiche della conoscenza sensibile, che la rendono inaffidabile: varia nel tempo, cambia da soggetto a soggetto e si modifica a seconda delle prospettive che vengono adottate.
Anche in questo caso la traduzione tradizionale di pistis, cioè «credenza», non è molto valida (anche se deve essere conosciuta per poter dialogare con gli altri parlanti che la adottano) perché lascia anche in questo caso intendere una posizione quasi fideistica (si «crede» che le cose stiano in un certo modo piuttosto che in un altro), posizione che è del tutto assente dal testo platonico.
Prese insieme comunque eikasia e pistis rappresentano la conoscenza sensibile o doxa sopra la quale si situa l’episteme (ossia la conoscenza stabile e certa). Anch’essa però, in stretta e voluta simmetria con la conoscenza sensibile, è composta di due segmenti:
• dianoia, ossia la conoscenza deduttiva che muove da ipotesi accettate come valide e ne ricava in maniera necessaria una serie di conseguenze. Per la sua caratteristica di necessità e indubitabilità la dianoia si trova a un livello completamente diverso dalla doxa. Tuttavia non è ancora il vertice dalla conoscenza, proprio perché il punto di partenza dei ragionamenti che costruisce è solo ipotetico: potrebbe accadere che in un momento successivo l’ipotesi da cui si sono prese le mosse si dimostri errata, facendo crollare tutto il ragionamento che su di essa era stato costruito. Di fatto, la dianoia corrisponde alla conoscenza matematica che appunto parte da un complesso di conoscenze accettate per vere (definizioni, assiomi, postulati) e ne deduce tutte le conseguenze che è possibile ricavarne.
• noesis, cioè l’ultimo e più autentico livello della conoscenza umana, nel quale noi cogliamo direttamente per intuizione la autentica realtà, caratterizzata dalla immutabilità e dalla stabilità. Qui e in molti altri passaggi Platone chiama l’oggetto supremo della conoscenza umana eidos, una parola greca che contiene la radice del verbo «vedere» e che allude al fatto che la conoscenza autentica è in un ultima analisi una visione dell’essere, un suo manifestarsi, un suo darsi allo sguardo dell’uomo.
Anche in questo caso la traduzione italiana, «idea», è ormai inestirpabile per quanto sia molto fuorviante: in italiano infatti «idea» allude prima di tutto a un contenuto soggettivo della mente del singolo individuo (come quando si dice: «mi è venuta un’idea», oppure: «io ho le mie idee, tu le tue»). In Platone eidos (plurale eide) ha il significato esattamente opposto: non indica i pensieri soggettivi di una persona ma un oggetto esterno a tutti i soggetti pensanti e che proprio per questa caratteristica può imporsi a tutti come l’unica autentica verità.
Il mondo delle eide
La proposta che Platone espone nella Politeia e in molti altri dialoghi per giustificare
• sia la possibilità dell’esperienza socratica (e quindi anche la speranza di una rifondazione “giusta” dello Stato)
• sia la possibilità della matematica (e quindi anche la fondazione di un tipo di sapere nettamente distinto da quello dei sensi)
è quindi ammettere l’esistenza reale di un insieme di «paradigmi» (ossia modelli, forme) che possono essere colti solo dal pensiero e nel pensiero.
Tali paradigmi o eide hanno caratteristiche opposte a quelle delle cose che si possono vedere e toccare con i sensi. Esse infatti sono:
• immateriali
• immutabili
• indivenienti
Le eide hanno in sostanza le caratteristiche del vero essere: proprio per questo possono essere il fondamento della conoscenza autentica e, insieme, del mondo che ci circonda.
L’anima e la conoscenza delle eide
Chi o che cosa conosce le «eide»? La risposta di Platone non lascia dubbi: le eide non sono conoscibili con gli organi di senso corporei (vista, udito, tatto…), ma solo con le potenze dell’intelligenza che risiede nell’anima (psychè).
Esiste una fondamentale simmetria tra conoscenza sensibile e conoscenza intelligibile (da una parte) e corpo e anima (dall’altra). Le caratteristiche della conoscenza sensibile sono quelle della corporeità; le caratteristiche della conoscenza intellegibile saranno quindi quelle della psychè.
Torneremo più avanti sul tema della psychè.
Le eide non sono «cose» immateriali, ma sono i significati delle cose materiali ed esistono indipendentemente dagli oggetti (o da ciò che pensiamo con la nostra attività autonoma).
Si trovano in un livello o di realtà che Platone chiama spesso «iperuranio», un parola greca che significa «al di sopra del cielo». L’iperuranio si trova al di là dell’esperienza sensibile. Per usare una espressione che Platone non conosceva ancora, il mondo delle eide è infatti trascendente, ossia sta al di là del mondo delle cose che si colgono con i sensi.
Anche in questo caso il ricorso a una immagine (un luogo che è al di là del cielo) è rischioso. Parlare di iperuranio significa in realtà parlare di un luogo che non è un luogo, ma è una metafora.
La conoscenza del mondo delle eide (ossia dei significati delle cose), secondo Platone è anàmnesis cioè ricordo.
Infatti Platone sostiene che l’anima conosceva il mondo delle eide prima di unirsi al corpo al momento della nascita, momento in cui s è dimenticata della conoscenza stabile dell’essere (vedremo più avanti che questa convinzione rappresenta un delle basi per la dimostrazione della immortalità della psychè)
In altre parole secondo Platone ognuno ha quindi dentro di sé la conoscenza delle eide che è stata dimenticata, ma che con una opportuna dialettica la si può riportare alla luce. Quando si riesce a fare ciò, si raggiunge la verità.
Questa tesi permette a Platone di interpretare in modo nuovo e originalissimo la dialettica socratica: se Socrate riusciva a costringere l’interlocutore ad abbandonare le proprie opinioni (doxai) è perché egli aveva in qualche modo già intuito il mondo delle eide, sia pure senza saperlo, e sulla base di questo spingeva gli ateniesi.
In uno dei suoi dialoghi più famosi (il Menone) Platone descrive un esperimento mentale nel quale Socrate (naturalmente il Socrate platonico, non il Socrate storico) dimostra che uno schiavo che non ha mai studiato geometria, se opportunamente stimolato con le domande giuste, può risolvere il problema della duplicazione del quadrato, cioè uno dei grandi problemi della geometria antica (il problema può essere formulato così: dato un quadrato trovarne un altro con area doppia).
Il Socrate protagonista del dialogo manda a chiamare uno schiavo da parte di Menone. All’inizio lo schiavo tratto in inganno dalle apparenze delle figure tracciate da Socrate, cade in errore. Ma a poco a poco stimolato da Socrate riesce a raggiungere la soluzione: infatti riesce a comprendere che solo se si prende in considerazione la diagonale del quadrato si può risolvere il problema, poiché il quadrato di superficie doppia rispetto ad un dato quadrato è quello che ha per lato la diagonale del quadrato.
Platone-Socrate sostiene che lo schiavo ha potuto raggiungere la verità perché in realtà ce l’aveva già dentro di sé, perché come tutti gli uomini aveva visto l’essere delle eide prima di nascere e quindi anche l’eidos del quadrato con tutte le sue implicazioni.
Non è un caso se Platone usa proprio la matematica per fornire l’esempio di cosa vuol dire conoscere: aritmetica e geometria possiedono infatti per Platone l’immenso merito di «guidare l’anima verso la verità», come ci dice lui stesso, e di creare un habitus mentale filosofico: perciò costituiscono la premessa fondamentale per lo studio della stessa filosofia.
Gli studiosi discutono sul contributo di Platone ai contenuti tecnici della matematica: il punto fondamentale è che Platone ha tentato seriamente per la prima volta di costruire una filosofia della matematica, teorizzando lo statuto ontologico dei numeri e delle figure geometriche come enti intermedi tra il molteplice diveniente del sensibile e l’identità immutabile dell’idea.
La dialettica
La dialettica platonica è in generale il percorso razionale che porta dal mondo dei sensi al mondo delle eide per poi muoversi all’interno di questo mondo.
In un senso più tecnico la dialettica corrisponde al metodo della dimostrazione scientifica, che Platone è tra i primi a codificare nei suoi dialoghi.
Dialettico è il tipico procedimento che assume senza preliminare dimostrazione un dato principio, e tenta di verificarlo o di falsificarlo La dialettica presenta una serie di problemi interni, relativi al mondo delle eide e delle cose, che Platone non riesce a spiegare.
Si rende conto però che vi è una strettissima correlazione tra il lato ontologico e quello gnoseologico e che le eide non sono tutte sullo stesso piano:
- il primo livello, il più basso, di questo mondo è rappresentato dalle matematica e dalla geometria. Esse rappresentano il paradigma epistemologico, ossia ci mostrano come deve essere un sapere per poter essere considerato autentico. Queste due epistemai sono le più elementari e costituiscono il passaggio tra mondo sensibile e mondo delle eide;
- il secondo livello è quello rappresentato dalle eide di tutti gli oggetti che ci circondano: un tale albero, una cosa bella o una cosa giusta partecipa all’eidos dell’albero, della bellezza e della giustizia. Il mondo sensibile non è dunque altro che un’imitazione delle idee, e per questo motivo le cose sono ciò che sono poiché hanno una relazione: «partecipano» cioè alle idee.
- il terzo livello è formato da un gruppo di idee più importanti alla quali tutte le altre devono partecipare e fare riferimento. Tali idee sono:
- idea di essere
- idea di identico (ogni idea è identica a se stessa, e da qui
l’idea di uguaglianza delle cose) - idea di diverso (non-essere): ogni idea è diversa dalle altre. Il non essere non corrisponde all’opposto dell’essere (ossia il puro nulla parmenideo) ma appunto al concetto di diversità (eteron);
• idee di moto e quiete: il moto non va inteso come movimento fisico ma come l’ essere in relazione con le altre idee o se stesso.
Nel Fedro la dialettica è definita come la sinossi (visione d’insieme) compiuta dal filosofo nei riguardi della realtà molteplice, al fine di trasceglierne gli elementi semplici che soli si possono ridurre all’unità dell’eidos intelligibile.
In questo senso, Platone contrappone costantemente la retorica dei sofisti al vero sapere dei filosofi, la dialettica. Il sapere del retore è un sapere apparente, che scambia di frequente il vero con il falso, l’essere con il non essere. Solo il dialettico sa discriminare la verità dall’apparenza e condurre i propri discorsi in modo tale che alle prove corrisponda il vero essere: le eide.
I rapporti tra eide e cose
In una prima fase della sua riflessione, Platone aveva sostenuto la teoria della partecipazione dell’oggetto particolare all’idea. Nel Parmenide egli mette in evidenza alcune gravi obiezioni contro tale teoria. Ammettendo che le cose particolari partecipino dell’idea corrispondente, ci si chiede se esse partecipino dell’idea intera o solo a parte di essa.
Se si accetta la prima alternativa, l’idea, che è una, è presente interamente in ciascuno dei molti individui e quindi è contemporaneamente «molti».
Se si sceglie la seconda, l’idea è unitaria ma divisibile (perché formata da più «parti») nello stesso tempo.
In ogni caso si giunge ad una contraddizione, derivata dall’impossibilità che ciò che è uno sia allo stesso tempo molteplice.
Platone perciò abbandona questa posizione e formula la teoria dell’imitazione (mimesis), nella quale si sostiene che gli oggetti particolari siano copie delle idee, le quali rappresentano i modelli; la somiglianza degli oggetti particolari con l’idea costituisce il loro legame con essa. La difficoltà in questo caso è che per poter dire che una realtà sia copia di un’altra bisogna che ci sia qualcosa in comune tra le due, che è diverso da entrambe.
Le obiezioni del Parmenide non trovano un’effettiva risposta. Tuttavia nei dialoghi posteriori ( in particolar moto nel Sofista, nel Politico e nel Filebo) si assiste a uno sforzo di rimodulazione della teoria, che ne renda l’accettazione, se non pienamente conseguente, almeno non incompatibile con le obbiezioni precedenti. Platone ritorna anzi sulla nozione di partecipazione, non più riferita parò al rapporto tra le cose particolari e le idee, bensì a quello delle idee tra loro. Tale rapporto è concepito ora in termini di reciproca comunanza, che consiste di conciliare unità e molteplicità, staticità e movimento dialettico tra idee. In questa versione più matura le idee perdono l’immobilità dell’essere parmenideo, per accogliere al loro interno la complessità e la ricchezza prima esclusiva del mondo empirico e apparente.
La diaresis
Il mondo delle idee assume ora l’aspetto di un organismo complesso, riccamente specificato e articolato, che consente di dare ragione degli stessi aspetti di molteplicità e articolazione propri dell’esperienza. L’attenzione si sposta sul momento della divisione (diaresis), che permette di ritrovare, entro l’unità dell’idea, la molteplicità che consente di collegarla al mondo empirico. Ciascuna idea si articola con quelle a essa subordinate e sovra ordinate secondo precise regole di reciproca partecipazione o comunanza. Tali nessi gerarchici possono essere stabiliti mediante una divisione. L’idea di uomo, per esempio si può trovare a partire da quella più universali di essere vivente mediante successive divisioni binarie.
Attraverso il metodo diairetico, Platone definisce l’uomo come bipede implume, definizione che che venne molto criticata.
Ogni idea va anzitutto distinta da quella ad essa opposta (domestico/selvatico, implume/piumato ecc.) con la quale non ha comunanza.
La divisione va inoltre compiuta in una sola direzione. Questo rapporto di comunanza tra idee o generi diversi è quello che consente di risolvere il problema della verità e dell’errore. La verità dei nostri giudizi è garantita infatti dalla capacità di ripercorrere le oggettive articolazioni o l’interna membratura del mondo delle idee. Secondo un’immagine che ricorre frequentemente nei dialoghi, possiamo raffigurarci il mondo delle idee come un organismo, le cui singole parti o membra corrispondono ai generi ottenuti mediante la diairesis.
La determinazione che viene provvisoriamente esclusa non è un nulla ma semplicemente un’altra idea che potrà tornare utile in un ulteriore diairesis. Questo sistema funziona inoltre esclusivamente se non esistono termini intermedi tra i due concetti contraddittori.
Rimane un problema: sino a che punto posso spingere la divisione? Da un’idea universale posso discendere ad altre più particolari, ma mi avvicinerò mai all’idea corrispondente alla realtà singola? In altre parole, potrò mai sperare di superare completamente il dualismo di idee e cose? La risposta non può che essere negativa.
Le idee, per quanto articolino la propria interna struttura in modo da avvicinarsi, per così dire, al mondo empirico, restano trascendenti. Al termine estremo della divisione troveremo idee non ulteriormente «divisibili».
Vi è quindi una dialettica ascendente che si può far corrispondere a quello che nei primi dialoghi era descritto come il processo della reminiscenza. Segue l’opposto procedimento diairetico o divisorio, che si può descrivere come discendente. Dividendo il genere sommo, escluderò via via determinazioni che sono estranee all’idea di partenza
La psyché
La concezione platonica dell’anima conosce una notevole evoluzione col passare degli anni:
- Prima fase (giovanile e socratica): Platone ha una concezione socratica dell’anima, intesa come un «cosmo di virtù»; in Socrate non è chiara la concezione di psychè (principio vitale in senso ampio), però è un grado di controllare il corpo
- Seconda fase (pitagorica). Dopo il suo primo viaggio in Italia Platone accetta una concezione pitagorica: la psychè è un «daimon» immortale, staccata e qualitativamente diversa dal corpo, che cade nel corpo per una «colpa originaria», una realtà esistente che è staccata dal corpo. Questo concetto viene espresso nel Fedone, in cui viene presentata anche la famosa espressione, basata su un gioco di parole intraducibile, secondo cui
«Il soma (corpo) è un sema (carcere)»
Platone ritiene che l’anima e il corpo siano rigidamente contrapposte: il corpo è male, sede di passioni che distolgono l’anima a svolgere il suo compito, ovvero la ricerca della verità. L’uomo per essere tale deve dimenticare la corporeità che deve continuamente contrastare. In questa fase centrale quindi è evidente il rigido dualismo: la psyché è solo buona, il corpo è solo cattivo. - Terza fase (maturità): egli riconosce l’errore della formulazione del Fedone e probabilmente riflettendo sulle tragedie, ammette che l’anima sia scissa al suo interno e che possieda al suo interno delle forze in contrasto fra loro: il male si trova nell’anima e non nel corpo. Nell’anima sono presenti delle energie interne, in contrasto tra loro, che possono portare nella direzione sbagliata. Possiamo giungere a questa interpretazione dal mito del carro alato del Fedro (dove Platone si confronta con l’arte della retorica).
Nel mito del Fedro l’uomo è paragonato ad un carro trainato da una coppia di cavalli alati e guidato da un’auriga. I due cavalli sono uno bianco, buono che si lascia guidare, e uno nero, quello cattivo che non si lasciadomare dall’auriga. Prima di cadere nel corpo l’anima dell’uomo seguiva il corteo degli dei fino ad arrivare ad un’erta e a poter contemplare l’ Essere. Gli dei non incontrano alcun problema durante il cammino perché i cavalli dei loro carri sono entrambi bianchi e quindi sono portati ad andare nella stessa direzione e l’auriga non incontra difficoltà a domarli; al contrario il cammino degli uomini è faticoso perché i loro carri sono trainati da un cavallo bianco ed un cavallo nero che vogliono seguire direzioni opposte. La salita dal mondo sensibile a quello delle eide è molto più difficile per le altre anime, perché uno dei due cavalli è cattivo e impedisce l’ascesa; è al massimo tenuto sotto controllo da un’ alleanza tra razionalità e quella parte dell’irrazionalità che può essere domata. Così, alla fine di questo cammino, i cavalli, dopo essersi calpestati a lungo le ali a vicenda, finiscono per perderle e l’anima precipita nel corpo. Il compito della vita dell’uomo è quello di far ricrescere le ali in modo tale da poter giungere a contemplare nuovamente l’Essere.
L’intuizione che l’anima umana non è un’entità compatta, ma molteplice, significa ammettere che l’uomo è continuamente esposto al rischio della follia. Come detto precedentemente, nel mito del Fedro l’anima risulta scissa al suo interno:
- la prima divisione è tra auriga e cavalli;
- la seconda è quella tra cavallo bianco e cavallo nero.
L’auriga può essere interpretato come metafora della razionalità, mentre i cavalli come delle forze psichiche non razionali di cui abbiamo bisogno per vivere. Il cavallo nero rappresenta la parte concupiscibile dell’anima, che lotta contro la parte razionale e non si lascia domare dall’auriga; il cavallo bianco rappresenta invece la parte irascibile, che è intermedia tra il conoscere e il desiderare, è neutrale e può allearsi con l’una o con l’altra parte.
Platone parla di questo mito come se ci fossero tre anime, non alludendo alla presenza di tre «spiritelli», bensì a tre differenti forme di energia psichica. L’ira è la passione che sta dalla parte della ragione e che si rivolge contro noi stessi quando non si riesce a respingere il desiderio. L’anima concupiscibile invece cede alle passioni che, lasciate a se stesse, ci possono distruggere.
Secondo l’interpretazione dello storico della filosofia Mario Vegetti, nel libro L’etica degli antichi, all’interno della nostra anima vi è un dualismo irresolubile e la psychè è dunque abitata da una scissione tra forze razionali ed irrazionali, rappresentate le prime dall’auriga e le seconde dai due cavalli. I cavalli, però, sono ciò che muovono il carro: senza le passioni l’anima non va avanti, non cambia. Le passioni quindi sono energia irrazionale ed essenziali per vivere, basta non lasciarle incontrollate. Platone è consapevole che l’anima possiede al proprio interno una molteplicità o scissione che provoca dolore, perché noi vorremmo esistere in modo autentico.
L’eros nel Simposio
Il fatto che il compito supremo dall’anima sia quello di ritornare a contemplare il mondo delle idee ripropone il tema dell’energia che deve guidare questa spinta: l’eros.
Riguardo a questo Platone scrive il Simposio, uno dei suoi dialoghi più celebri e più importanti.
Nel testo Platone espone diverse concezioni di eros (amore) in un climax ascendente, partendo da quella più semplice.
La trama è la seguente. Apollodoro, un discepolo di Socrate, riferisce all’amico Glaucone quanto Aristodemo gli ha raccontato riguardo al banchetto offerto dal poeta Agatone nel 416 a.C. Il convivio era stato organizzato per festeggiare la vittoria da lui conseguita al concorso tragico delle Grandi Dionisie. Questa occasione riunisce alcuni amici del poeta che vengono chiamati a esprimere la loro opinione su eros.
I personaggi in questione sono stati anche interpretati come delle maschere che esprimono non solo singole individualità ma correnti di pensiero dell’epoca di Socrate e di Platone. Essi sono:
Fedro (simbolo di quel tipo di uomini che sanno provocare discorsi piuttosto che farne di propri). Egli dà esclusivamente una interpretazione materialistica di eros;
Pausania (il cui nome richiama la posizione filospartana) distingue due forme di amore: la Venere terrestre che ispira una passione carnale e la Venere celeste che ispira sentimenti nobili. Questi sentimenti nobili, non essendo una passione carnale, si riferiscono anche ad un amore omosessuale;
Erissimaco, rappresentante dell’ordine dei medici greci, ispirato ai filosofi naturalistici, non intende l’amore come una forza tra due uomini,o tra un uomo e una donna, ma come forza cosmica (tesi di Empedocle);
Aristofane è il simbolo della commedia greca. Platone cerca di ritrarre Aristofane come un buffone, che perciò non può dire cose serie. Egli infatti racconta un mito: un tempo gli uomini erano a forma di sfera con due teste, rotolavano veloci ed erano potentissimi. Per questo gli Dei ne erano invidiosi così Zeus divise in due queste creature: si formarono quindi uomini e donne (da questa divisione ebbero origine o due individui dello stesso sesso o un uomo e una donna) e le due metà rimasero perennemente attratte, da qui si ha un amore che porta al ricongiungimento.
Questo mito è citato spesso oggi per le sue somiglianze con il significato romantico dell’amore: due metà che si cercano e si uniscono. Ma tale interpretazione non può essere la posizione di Platone, la quale voleva essere ironica per ridicolizzare Aristofane.
Agatone (icona della tragedia) dà una descrizione di eros sentimentale: l’amore è per lui una sensazione di appagamento, dolcezza che ti trascina (amore inteso come al giorno d’oggi);
Socrate, incarnazione del filosofo greco, non parla in prima persona, ma assume la maschera della sacerdotessa Diotima, a cui affida l’esposizione del proprio pensiero). Caso unico nei dialoghi platonici, Socrate non è il protagonista del dialogo, ma racconta ciò che gli ha detto la sacerdotessa di Mantinea. Inoltre eccezionalmente parla una donna e in più una donna che insegna ad un uomo.
La sacerdotessa Diotima racconta il mito della nascita di Eros: Eros nasce dall’unione tra Poros (ricchezza) e Penia (povertà) nel giorno della nascita di Venere. Eros non è quindi solo un dio bello, buono, ricco e felice ma è un qualcosa di mezzo tra bello e brutto, tra buono e cattivo, tra mortale e immortale, quasi un demone, poiché possiede la natura di entrambi i genitori: l’astuzia e l’ardimento del padre, che lo spingono ad ordire complotti contro le cose belle e buone, la fame e l’indigenza della madre, che lo spingono a una continua ricerca. Eros è sofferenza, è la volontà di possedere ciò che non si ha, diventa quindi metafora per indicare l’anima del filosofo, che ama ciò di cui manca, cioè la sapienza;
Alcibiade che arriva solo nel finale è l’emblema del giovane dotato, ma incapace di cogliere fino in fondo il senso e le finalità del discorso di Socrate.
La città giusta
Platone con i suoi dialoghi della maturità ritorna ad affrontare il tema dello stato giusto. Lo stato platonico non ha nulla a che vedere con uno stato di fatto, esistente nella realtà storico – sociale: esso cioè, è piuttosto un modello idealizzato. Nella sua idea lo stato non può derivare dal violento e arbitrario imporsi di alcuni individui sugli altri, ma da un principio semplice e naturale: la divisione del lavoro. Questa è a sua volta conseguenza della naturale diversità dei bisogni e delle attitudini testimoniate dall’anima dei singoli; il singolo non può bastare a se stesso, ma deve cooperare con gli altri, mediante il lavoro, al mantenimento e alla difesa della collettività.
Platone immagina uno stato formato da tre classi di cittadini: i lavoratori, i guerrieri e i governanti.
Egli esprime il concetto di stato giusto per mezzo della similitudine tra stato e anima: deve infatti esistere una proporzione e una corrispondenza tra interiorità ed esteriorità; le dinamiche della psiche riflettono dunque quelle sociali poiché stato e anima funzionano allo stesso modo.
I governanti, la cui specifica virtù è la sa grezza, sono come la parte razionale dell’anima.
I guerrieri, la cui virtù è il coraggio, corrispondono alla parte irascibile.
I lavoratori, che non hanno una virtù propria, ma condividono quella generale di tutto il corpo sociale, cioè la temperanza, corrispondono alla parte concupiscibile.
Quindi come esistono tre forze nell’anima, esistono tre classi sociali. I custodi sono coloro che incarnano la figura del re-filosofo, quindi sono i soli che hanno maggiori possibilità di apprendere la verità, di raggiungerla. Nasce quindi una divisione tra chi conosce qualcosa della filosofia e chi no, che di conseguenza lavora.
Platone però non ha mosso la giustizia in relazione a qualche gruppo sociale, perché la giustizia è tutto l’insieme: si può raggiungere quindi solo se ogni classe sta al suo pasto e attua ciò che le compete.
Il comunismo platonico
Nei libri II-V della Politeia viene descritta un’organizzazione sociale e politica che è parsa ad alcuni «comunistica». Il principio della divisione del lavoro e l’esigenza di giustizia impongono che chi esercita un mestiere e detiene una proprietà economica, la classe dei lavoratori, non abbia diritti politici, mentre i guardiani, le classi dirigenti, non debbano avere alcuna proprietà ma debbano vivere in una comunione dei beni e delle donne. In caso contrario, l’avidità e le lotte che ne conseguono trasformerebbero in tirannide il buon governo della repubblica. Affinché poi i cittadini si sentano membri di una sola famiglia e le tre classi non si trasformino in caste chiuse, i fanciulli dovevano essere sottratti in tenera età alle famiglie e allevati in comune, a cura dello stato. I saggi governanti sapranno scegliere tra loro i più adatti a divenire a loro volta guardiani, indipendentemente dalla loro origine sociale. Le femmine avranno gli stessi diritti e la medesima educazione dei maschi. Lo stato infine non dovrà assolutamente contenere al suo interno differenze eccessive di ricchezza e povertà, fonte di ingiustizie.
Il filosofo tedesco Karl Popper, autore di La società aperta e i suoi nemici, sviluppa la tesi per la quale Platone, Hegel, e Marx furono i peggiori filosofi della storia poiché, inconsciamente, furono i padri del totalitarismo e quindi di una società chiusa, estremizzata poi per esempio nel nazismo e nel fascismo. Egli infatti sostiene che è impossibile trovare una società giusta ed è proprio per questo che tutti i tentativi svolti portarono ad una degenerazione. Dato lo schema platonico, in cui tutto il potere è nelle mani dei controllori, chi controllerà i controllori? La società migliore non è quella migliore in assoluto, ma quella più facilmente migliorabile di volta in volta. Ciò nonostante dobbiamo prendere in considerazione il comunismo platonico come etico, un’esigenza di assoluto disinteresse e di astratta giustizia, non un ideale o un’ispirazione di tipo sociale ed economica.
Le teorie estetiche
Secondo Platone è opportuno fare una netta distinzione tra: arti visive e arti melodiche.
Platone condanna fortemente l’arte visiva poiché imitazione, ma non come imitazione della vera realtà bensì dell’apparenza sensibile. Essa è dunque imitazione dell’imitazione, copia della copia, e si trova perciò «tre gradi lontana» dalla verità.
Essa non si indirizza alla parte razionale dell’anima, bensì a quella emotiva e irrazionale, suscitando turbamenti e vane passioni. La polemica di Platone è rivolta, in particolare, contro i poeti che sono erroneamente considerati gli «educatori» dei greci. Imitando le peggiori passioni degli uomini, rappresentando cattivi modelli della divinità essi sono di fatto dei «corruttori».
Sarebbe però sbagliato interpretare questo discorso come una condanna indiscriminati di ogni forma artistica. Platone ci suggerisce infatti che la nuova ed autentica forma d’arte è la filosofia.
La filosofia infatti non imita i modelli sensibili ma direttamente le idee.
È soprattutto la musica la forma d’arte verso cui sembrano andare la maggiori simpatie del filosofo. Non solo nella Politeia essa è accostata alla ginnastica per la sua essenziale funzione educativa (quella di produrre l’armonia tra anima e corpo), ma soprattutto nei dialoghi tardi la troviamo avvicinata alla matematica, come forma superiore di cultura assai prossima alla filosofia.
La musica, proprio per la sua componente matematica, ci introduce alla contemplazione del mondo delle idee.
Nello stato di Platone dunque sarebbe dovuto essere presente questo tipo di arte in modo puro e che portasse a passioni ed a sentimenti giusti. Le arti melodiche possono essere utili, a condizione che eccitino le passioni giuste, quelle che aiutano a tendere l’uomo verso la verità.
Secondo l’interpretazione di Karl Popper ciò significava negare l’arte, ed utilizzare quest’ultima solo per dimostrare l’unione di un partito, come nell’esempio più estremo del nazismo. Secondo Aristotele la tragedia ha una funzione catartica, ossia purificatrice. Il fatto di vedere la passione oggettivata sulla scena ci permette di prendere le distanze. Platone sostiene invece che la tragedia ecciti le passioni e che quindi contagi lo spettatore, il quale si sente autorizzato a vivere senza rimorsi le esperienze più tremende proprio perché le ha già viste sulla scena. Queste due posizioni ricalcano le due posizioni che oggi si hanno nei confronti della televisione: la prima, sostenuta da Karl Popper, con la celebre descrizione della televisione come «cattiva maestra», poiché contagia lo spettatore; la seconda, che ritiene che fin da piccoli si ha la capacità di contestualizzare il male mostrato in cartoni animati e film e comprendere e distinguere realtà e finzione.
La conoscenza della natura
La filosofia della scienza platonica è contenuta nel dialogo Timeo in cui Platone descrive la natura come traduzione di un insieme di numeri che la regolano e la governano.
La natura ci è nota attraverso la sensazione e la conoscenza che su tali basi si fonda non può pretendere di raggiungere la certezza dimostrativa di un sapere definitivo poiché essa stessa è fluida e mutevole.
La scienza naturale è un sapere congetturale e probabile, che non giunge, come invece fa la filosofia, a una verità assoluta.
Ciò non esclude tuttavia che anche la conoscenza della natura possa avvicinarsi per gradi all’esattezza della conoscenza filosofica, si assume come «ipotesi verosimile» l’esistenza di una struttura razionale, di un modello ideale che ha presieduto alla sua formazione.
Già i pitagorici, affermando che le cose sono «numeri», aveva introdotto l’esattezza matematica nel cosmo naturale, l’ordine nel disordine.
L’ipotesi più probabile secondo Platone è quindi che il mondo si strutturi attorno a schemi di carattere matematico e geometrico: il mondo dunque è ricostruibile per mezzo delle quattro radici fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco, che a loro volta sono riconducibili ai cinque solidi platonici regolari e che a sua volta ogni loro faccia è scomponibile in triangoli rettangoli nei quali, come si è già visto, domina il teorema di Pitagora: teorema che governa l’intero universo.
I cinque poliedri sono collegati agli elementi secondo questo schema:
- Tetraedro – fuoco
- Cubo – terra
- Ottaedro – aria
- Dodecaedro
- Icosaedro – acqua
Il quinto solido, il dodecaedro, non potendo essere accostato a nessuna delle quattro radici, divenne simbolo dell’universo poiché ogni sua faccia è formata da pentagoni, dei quali se si tracciano le diagonali si ottengono via via altri infiniti pentagoni.
Al centro del Timeo sta il grande mito cosmologico. In esso sta la figura del demiurgo, artigiano divino ed essere intermedio tra il mondo delle eide ed un “qualcosa” che Platone chiama chora e definito anche come la spazialità informe. Il demiurgo, divino artefice che ha dato forme e inizio all’universo, è un’intelligenza ordinatrice, non creatrice, che ha introdotto l’ordine nel caos delle origini, avendo di mira una perfezione ideale espressa dall’idea del bene, l’idea cioè di produrre «il migliore dei mondi». Egli si trova in mezzo alla chora, è una figura buona e la sua volontà è quella di plasmare le cose senza guardare verso il basso ma scrutando solo il mondo delle eide; per questo motivo cercando di imitare quest’ultime provoca grandi differenze negli oggetti prodotti. A differenza del Dio biblico, egli dunque non crea il mondo «dal nulla», ma conferisce una forma e un ordine a una materia preesistente. Questa materia delle origini non è costituita dai quattro elementi, di cui sono fatti tutti i corpi, ma è il «ricettacolo» (chora) , lo spazio da cui fuoriescono gli elementi visibili che prima si agitavano in essa del tutto confusamente. Il demiurgo si serve di forme geometriche per adattare allo spazio i quattro elementi qualitativi e generare, dalla loro ordinata mescolanza, il mondo dei corpi. Un passo centrale nella cosmologia platonica occupa inoltre l’anima, che non è più un elemento antropologico, ma cosmico, ed è identificata con l’anima del mondo (anima mundi). La creazione dell’anima del mondo, da parte del demiurgo è anteriore a quella dei corpi, che solo dall’anima ricevono la caratteristica loro peculiare, quella del movimento.