Nel contesto della polis apparvero, nella seconda metà del V secolo, dei pensatori che amavano presentare se stessi come «maestri di aretè» e che venivano identificati dal pubblico delle polis come i «sapienti». Non rappresentavano un gruppo organizzato e tanto meno una «scuola» di pensiero. Erano semplicemente dei professori che giravano le città della Grecia per offrire il loro insegnamento a chiunque fosse in grado di pagare per averlo.
Già questo comportamento, tuttavia, era rivoluzionario: non era mai accaduto che qualcuno si facesse pagare per insegnare ad altri. Fino a quel momento i pensatori, qualunque cosa voglia dire questa parola, erano solo dei personaggi di spicco all’interno delle città in cui vivevano che, avendo tempo e talento, organizzavano le proprie riflessioni in modo organico, a volte anche mettendole per iscritto. Con la parziale eccezione dei pitagorici, che avevano dato vita a una vera e propria comunità di ricerca, chi voleva diventare «discepolo» di un certo filosofo poteva acquistare il suo libro oppure cercare di incontrarlo durante una delle numerose feste panelleniche durante le quali numerose persone si mettevano in viaggio per raggiungere località anche molto lontane dalla madrepatria. Non era mai accaduto invece che dei veri e propri professionisti si spostassero di città in città col preciso scopo di procurarsi allievi per guadagnare: questo aspetto della attività dei «sofistes» fu quello che impressionò e scandalizzò di più i contemporanei.
Ma cosa si proponevano di insegnare e perché potevano ragionevolmente aspettarsi che molte persone avrebbero accettato di spendere somme considerevoli per venire da loro? I sofistès si proclamavano «maestri di aretè», intendendo con questo che potevano insegnare la «aretè» del cittadino agli abitanti della polis.
La parola «aretè» viene normalmente tradotta con il termine «virtù», ma si tratta di una traduzione fuorviante, dato che oggi l’orizzonte semantico della parola italiana riguarda quasi esclusivamente il campo morale.
Il termine greco invece indica quella particolare qualità, diversa per ogni genere di cosa, grazie alla quale quella determinata cosa è davvero se stessa. Per esempio, la aretè del cane da guardia è la fedeltà, perché proprio la fedeltà è la caratteristica fondamentale del cane da guardia, grazie alla quale un cane da guardia è davvero un buon cane da guardia. Allo stesso modo, la aretè di un cavallo è la velocità, come la aretè di un pilota di navi è la capacità di saper prevedere i venti e le onde. La aretè di un guerriero omerico era il coraggio, mentre quella di un guerriero oplita deve comprendere anche la temperanza.
Qual è la aretè di cui si dichiarano «maestri» i sofistès? È ciò che rende un abitante della nuova polis un buon cittadino, ossia è la capacità di parlare in pubblico nelle assemblee per far prevalere la propria opinione.
I sofistès quindi erano prima di tutto dei «tecnici della parola parlata», che avevano sviluppato molte strategie per prevalere sugli interlocutori tanto nei dibattiti pubblici e politici quanto nelle conversazioni private: furono cioè «retori» nel senso antico del termine.
È importante rilevare che l’ambito in cui si muovono è quello orale: quando rileggiamo oggi le loro argomentazioni dovremmo sempre ricordarci che esse furono concepite nel dialogo vivo e immediato tra due parlanti in carne ed ossa, e che una volta messe su carta perdono molto della loro efficacia.
Per ottenere questo risultato la prima generazione di sofistès esplorò varie opzioni:
- Simonide di Ceo per esempio, originariamente un poeta, puntò sulla mnemotecnica;
- Prodico sulla sinonimica,
- Ippia sul sapere enciclopedico.
Tra i primi sofistès però quelli che si imposero sugli altri furono Protagora e Gorgia.
Martino Sacchi
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