Eraclito

Perché Eraclito è importante?

Anche Eraclito parte dalla constatazione del mondo come di una realtà caratterizzata dalla trasformazione e dall’alternarsi di contrari: caldo e freddo, giorno e notte, amaro e dolce… Anch’egli, come i pitagorici, ritiene che il divenire rappresenti solo l’aspetto superficiale del mondo, e che sotto di esso esista qualcosa che rappresenti il fondamento, l’archè, della physis.

Con Eraclito ci troviamo di fronte a un problema nuovo. Questo filosofo ha scritto un libro di cui ci sono rimasti circa 120 frammenti, per lo più brevi (una o di frasi al massimo). Tuttavia lo stile in cui sono redatti è volutamente ambiguo e simile a quello degli oracoli, così che era difficile, anche quando il testo era completo, comprenderne il significato: non a caso Eraclito venne subito soprannominato «l’oscuro». A maggior ragione noi, che non possiamo leggere il contenuto completo dell’opera, ci troviamo in difficoltà quando cerchiamo di intuirne il senso. Il testo ci appare come una serie di lampi, di intuizioni, a volte folgoranti a volte vaghe e confuse

È chiaro che questa scelta non può essere casuale. Se Eraclito scrive in questo modo è perché vuole ottenere un preciso effetto comunicativo e pedagogico: comunicare con la verità è difficile e ambiguo.

L’intuizione di partenza: il mondo si trasforma

Anch’egli parte da una serie di intuizioni condivise con gli altri filosofi ionici, in particolare Anassimandro, e pitagorici:

  • la physis è caratterizzata dal suo continuo trasformarsi
  • la trasformazione della physis viene concepita come un alternarsi di termini o elementi contrari l’uno all’altro (caldo/freddo, buio/luce, amaro/dolce…)

La grande intuizione di Eraclito è questa:

il fondamento, l’arché della physis, ossia ciò per cui la physis esiste, consiste nello stesso alternarsi dei contrari.

Ciò che è comune a tutte le cose (l’archè, appunto) non è un elemento tra gli altri (come avveniva con Talete e Anassimene), né un elemento staccato dagli altri (come era con Anassimandro), ma è lo stesso essere diverso di ciscuna cosa rispetto a tutte le altre e in particolare rispetto all’elemento opposto.

«Eraclito porta alla luce che l’identità delle cose è il loro stesso essere diverse e apposte, il loro stesso diversificarsi (dalle altre) e opporsi (alle altre)…Ciò che vi è di identico in ogni cose è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre» [Severino, 1984:42]

Cerchiamo di capire cosa intendeva dire esattamente Eraclito.

Il punto di partenza è l’incessante trasformazione della physis. Il mondo che noi sperimentiamo cambia continuamente il suo aspetto: con un’espressione che non è di Eraclito ma che verrà introdotta molti secoli dopo, possiamo dire che il mondo è soggetto a un continuo divenire (non a caso Eraclito verrà chiamato «il filosofo del divenire»).

La proposizione che viene attribuita ad Eraclito per descrivere questa condizione è panta rei, che significa: tutto scorre.

In realtà si tratta di una proposizione che non compare nei testi giunti fino a noi; tra i frammenti a noi pervenuti quello che meglio di tutti allude alla continua trasformazione delle cose è invece il frammento n. 19, che dice così:

«Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume»

Cosa vuol dire Eraclito con questa sentenza?

Il fiume è fatto di acqua, che scorre continuamente e perciò cambia senza soste: l’acqua che vedo passare sotto un ponte in questo momento non è la stessa acqua che passava un’ora fa e non è quella che passerà tra un’ora. Il fiume che ho di fronte a me in quanto fatto di acqua che cambia continuamente non è lo stesso che potevo guardare un’ora fa e non è lo stesso che potrò ammirare tra un’ora.

Lo stesso discorso può essere fatto in realtà per tutte le cose: nessun oggetto rimane perfettamente uguale a se stesso, ma subisce continue trasformazioni. Magari si tratta di cambiamenti impercettibili a occhio nudo che però, sommandosi gli uni agli altri, diventano evidenti col passare del tempo.

Queste trasformazioni, secondo Eraclito, possono essere descritte in generale come il passaggio da un contrario al suo opposto: l’acqua del fiume, per esempio, si sposta da un luogo che è in «alto» (la sorgente) a un luogo che è in «basso» (la foce), mentre un bambino che cresce da «piccolo» diventa «grande», e così via.

Fin qui Eraclito non dice niente di realmente nuovo, anche se certamente ha il merito di insistere su questo argomento con molta maggior forza degli altri filosofi (almeno per quanto ne sabbiamo noi).

L’archè della trasformazione

Di gran lunga più importante è il passaggio successivo.

Il mondo è fatto di contrari che continuamente si alternano: ma a quale condizione possiamo dire che esistano i contrari?

A quale condizione per esempio possiamo dire che esiste qualcosa che chiamiamo «caldo»? La risposta di Eraclito è: solo a condizione che esista il «freddo», ossia il contrario del «caldo».

Se non esistesse il freddo, non potremmo neanche accorgerci che esiste qualcosa come il caldo: semplicemente, non avremmo la possibilità di pensare che una certa esperienza o un certa realtà siano «calde». Ma vale anche il reciproco: il freddo è sì ciò per cui possiamo dire che esiste il caldo, ma anche il caldo è ciò per cui possiamo dire che esiste il freddo (ossia ciò che non è caldo). Senza avere avuto l’esperienza del caldo non potremmo neanche farci venire in mente che un qualcosa è «freddo», cioè non caldo.

La stessa argomentazione potrebbe essere ripetuta per altre coppie di contrari: la luce per esempio è se stessa, cioè luce, proprio perché si contrappone al buio, e viceversa esiste qualcosa che possiamo indicare come «buio» solo perché esiste la «luce» di cui il buio è la negazione. Se non esistesse anche uno solo dei due termini, non potrebbe esistere neppure l’altro. Ciascuno dei due termini è la condizione per cui può esistere l’altro, e perciò non si può sceglierne uno solo e dire: questo elemento, da solo, spiega tutto.

Il termine che Eraclito usa per indicare il contrapporsi dei contrari è polemos, una parola greca che significa «guerra»: la contrapposizione degli elementi di cui abbiamo parlato finora non è statica, infatti, ma dinamica. Ciò significa che ciascuno degli elementi lotta per sopraffare l’altro, senza però poterci riuscire fino in fondo, pena il proprio stesso annullamento.

Infatti, se il caldo nella sua lotta perenne con freddo a un certo momento lo distruggesse veramente, sparirebbe anch’esso, proprio perché il caldo per esistere come tale ha bisogno del freddo.

Sotto il polemos, il logos
Il mondo è descrivibile come una serie di contrari in lotta tra loro: e tuttavia non è caos. Anzi il frammento n° 1, che probabilmente era l’incipit del libro di Eraclito, sostiene una tesi completamente diversa:

«Tutte le cose sono uno»

Sotto la molteplicità delle apparenze, sotto il fluire del divenire, sotto lo scontro tra contrari del polemos, esiste un qualcosa di più profondo che è comune a tutte le cose e che le rende qualcosa di unitario.

Non si tratta però, lo abbiamo già visto, di un altro elemento, un’altra cosa in qualche modo nascosta, soggiacente agli elementi e alle cose: se così fosse, si riproporrebbe il problema di scegliere quale elemento dovrebbe godere del privilegio di essere il fondamento di tutto il resto, e rimarrebbe da giustificare la scelta di questo elemento a discapito degli altri.

La risposta di Eraclito è invece questa: il polemos, cioè la guerra e la contrapposizione degli elementi, nasconde in se stesso una armonia, cioè un’ordine e una unità. Questa armonia nascosta e profonda viene indicata dal filosofo col termine «logos», che assume però qui un significato ben diverso da quello che aveva presso i pitagorici: non c’è più alcun riferimento ai numeri, ma allude a invece alla razionalità nascosta che percorre e sostiene la physis.

In questo modo Eraclito può riprendere i concetti di giustizia e ingiustizia già presenti in Anassimandro:

Ma questo logos razionale e unificante, sottostante a tutte le cose e pacificante, non è offerto a tutti, anzi, è come se la grande maggioranza degli uomini fosse cieco e sordo nei suoi confronti: è al suo cospetto ma non lo vede né lo percepisce, e di conseguenza si comporta in modo sbagliato.

Il sapiente è invece colui che riesce a raggiungere quella più profonda conoscenza della physis che gli permette di cogliere la realtà del logos e di ripeterla agli altri esseri umani tramite il suo logos inteso questa volta come «discorso».

«Il sapiente… sta … in ascolto del logos e quindi dice e fa cose vere. Non è colui che conosce un gran numero di cose (Eraclito si riferisce qui esplicitamente a Pitagora), bensì colui che segue la legge di Dio quale è manifesta nel Logos. Nella sapienza così intesa risiede la suprema virtù» [Severino 1984:45]

È ancora forte l’influsso dell’esperienza sacerdotale dell’oracolo, in particolare quello di Apollo in Delfi, che spinge Eraclito a esprimersi come abbiamo detto in una forma quasi enigmatica: chi legge il suo libro pertanto, come chi si reca dall’oracolo, si trova di fronte a espressioni volutamente paradossali. Ha di fronte una serie di parole che sembrano avere un certo significato letterale ma che in realtà nascondono un significato profondo che schiude la possibilità di incontrare il logos.

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