Autore: Martino Sacchi
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Perché Rousseau è importante?
Nonostante Rousseau sia uno dei filosofi più rilevanti durante l’illuminismo, la sua figura si distacca molto da quelle degli altri pensatori del suo stesso periodo.
L’illuminismo è una corrente filosofica caratterizzata da un sostanziale ottimismo e fiducia nelle possibilità della ragione umana di comprendere il mondo e modificarlo. Rousseau è invece tra i primi ad avanzare dubbi verso questo ottimismo generalizzato sia nei confronti del progresso sia nei confronti della società, che ritiene «malata».
Non a caso i suoi contributi fondamentali sono nel campo della filosofia politica e in quello dell’educazione.
Nel campo della politica egli modifica profondamente il contrattualismo esistente teorizzando l’ideale di una società veramente e intrinsecamente democratica: se la società attuale è decadente, è necessario rifondarla alle radici con un patto (il «contratto sociale») totalmente nuovo.
Ma per creare una società nuova è necessario un tipo nuovo di uomo, e questo può essere prodotto soltanto attraverso l’educazione: Rousseau quindi si occupa anche di questo tema sviluppando la tesi fondamentale per cui il bambino è intrinsecamente buono e necessita solo di un ambiente educativo non repressivo che gli permetta di sviluppare spontaneamente tutte le proprie potenzialità.
La critica alla società esistente
Rousseau nel 1749 partecipa con il Discorso sulle scienze e le arti al concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema: «Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi». In altre parole, si chiede se lo sviluppo delle scienze faccia crescere la società anche da un punto di vista etico. Tutti i filosofi a questa domanda rispondono in modo affermativo, Rousseau invece sostiene che «le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti sono progredite verso la perfezione».
«È sbagliato pensare che ci sia un nesso diretto tra lo sviluppo della conoscenza e lo sviluppo dell’etica: non diventiamo migliori perché conosciamo o sappiamo fare più cose.
Regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano essere stati fusi in uno stesso stampo; senza posa la civiltà esige, la convivenza ordina».
La colpa dell’evidente decadimento dei costumi non deve essere addebitata né a Dio né all’uomo in quanto tale, ma alla società. La società occidentale infatti è abitata da una scissione tra apparenza e realtà per cui diventa più importante l’apparire che l’essere. Tutti seguono un certo tipo di comportamento imposto che non corrisponde a ciò che si è; si crea un mondo uniforme in cui non si è in grado di manifestare la propria autenticità.
Questa civiltà è definita vile, perché nessuno ha il coraggio di ribellarsi, e ingannevole, perché non corrisponde alla realtà.
A causa di questa scissione la comunicazione tra gli uomini è falsa e dunque lo sviluppo della scienza e della tecnologia non ha portato ad alcun miglioramento etico, tanto che «Senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio. Non si osa più apparire ciò che si è».
Ma, sostiene Rousseau, c’è stato un tempo in cui questa scissione tra apparenza e realtà non c’era e in cui esisteva un’identità immediata tra essere e apparire. Per eliminare questa scissione bisogna, dunque, compiere una rifondazione della società: la salvezza dell’uomo viene dalla politica.
Nel 1755 Rousseau partecipa una seconda volta al concorso dell’Accademia di Digione con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini.
Mentre il primo discorso era più retorico e basato su considerazioni non approfondite, il secondo discorso ha un’impostazione metodologica più accurata, soprattutto nella prefazione in cui compare il concetto di «stato di natura» in cui vive l’ «uomo originario» (o «uomo naturale»).
«È manifestamente contro la legge di natura, in qualsiasi modo la si definisca, […] che un pugno di uomini rigurgiti di superfluità mentre la moltitudine affamata manca del necessario».
Rousseau affronta qui il tema della disuguaglianza, sostenendo che questa sia evidentemente ingiusta perché va contro lo stato di natura, la condizione in cui vive l’uomo senza essere condizionato dalla civiltà.
Quando Rousseau parla di stato di natura non sta pensando alla condizione in cui vivono i «selvaggi» o agli uomini della preistoria, e neppure a una ipotetica «età dell’oro» o addirittura al Giardino dell’Eden di cui parla la Bibbia, ma si riferisce all’uomo nella sua vera essenza, privo di tutte le contaminazioni che derivano da millenni di civiltà.
«Lo stato di natura è uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, di cui è necessario tuttavia avere una nozione giusta, per giudicare bene del nostro stato presente».
Quella che fa Rousseau è solo un’ipotesi di lavoro, poiché nessuno ha mai visto l’uomo naturale che, forse, «non è mai esistito». Bisogna però servirsi di quest’ipotesi come modello per valutare la condizione dell’uomo artificiale e civilizzato, che vive all’interno della società occidentale «moderna», evitando di commettere l’errore di proiettare nel passato i dati che riguardano la situazione del presente.
Ne segue per Rousseau che non possiamo postulare una legge naturale (per esempio, il diritto «evidente» alla proprietà privata di Locke), conoscibile razionalmente osservando l’uomo delle origini, che dovrebbe essere il punto di riferimento nella costruzione della società odierna.
L’uomo naturale che Rousseau descrive invece è un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma nell’insieme organizzato più vantaggiosamente di tutti. I suoi bisogni sono modesti, le sue passioni sono elementari e i suoi timori fondamentali sono il dolore e la fame: non è ancora un essere «razionale», né tanto meno un «animale politico».
Vive inoltre con la natura una relazione immediata, ovvero a contatto diretto con essa, senza mediazioni quali lo stato o il linguaggio (che non possiede ancora).
Gli unici principi che si possono attribuire all’uomo naturale sono l’amore di sé, ovvero la tendenza alla propria conservazione, e la pietà, cioè una ripugnanza naturale a vedere soffrire i simili.
L’uomo naturale vive senza lavorare, senza procurarsi una residenza fissa, senza fare la guerra (viene quindi respinta l’ipotesi di Hobbes del bellum omnium contra omnes come stato originario dell’umanità) e senza associarsi con gli altri uomini: non ne ha bisogno, così come non ha desiderio di far male agli altri.
L’uomo naturale non ha un vero senso del tempo e vive solo nel presente: è incapace di riflettere così come è incapace di preoccuparsi del futuro.
Nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali: le uniche disuguaglianze insuperabili sono legate alla diversa forza fisica di ciascuno, che però non ha alcun effetto sui rapporti interpersonali perché gli uomini non vivono insieme.
L’uomo naturale, infine, ha due caratteristiche «essenziali»:
- la libertà, ossia la possibilità di rispondere o non rispondere agli impulsi fisici
- la «perfettibilità», ossia la possibilità di evolversi in modi non predeterminati, come conseguenza diretta della libertà. Si noti che questo termine non va inteso come «miglioramento etico» ineluttabile, ma solo come la possibilità di essere diversi da come si è.
Questa condizione naturale è venuta meno quando è nata la società civile, che per Rousseau è strutturalmente caratterizzata dalla diseguaglianza e dal dominio dell’uomo sull’uomo.
Il primo passo per l’uscita dalla condizione naturale potrebbe essere stato casuale: per esempio una catastrofe naturale che ha obbligato i singoli a convivere. Il secondo passaggio è stato però voluto dall’uomo stesso, attraverso l’introduzione sistematica della agricoltura e della lavorazione dei metalli.
A questo punto dello sviluppo l’interazione tra uomo e uomo ha portato alla divisione del lavoro. La divisione del lavoro ha portato al sorgere di attività non direttamente produttive (l’arte, per esempio). Si sono così venute a creare delle differenze tra le singole persone che sono diventate sempre più evidenti. Il momento chiave di questo processo coincide con l’introduzione della proprietà privata. L’uguaglianza dello stato di natura è perso per sempre: inizia il confronto tra i singoli, con il suo seguito di invidia, vergogna e vendetta. Dall’uomo naturale si passa all’uomo storico e, a causa della disuguaglianza, non c’è più una convivenza pacifica, ma solo lotta (il bellum omnium contra omnes di Hobbes si giustifica solo a questo punto). Nel tentativo di salvare la propria posizione di privilegio, i «ricchi» convincono con l’inganno i «poveri» a stringere un «patto sociale», con cui si esce formalmente dallo stato di natura e si entra nella società. Il patto però è iniquo perché nasce dall’inganno (i ricchi convincono i poveri che senza tale patto questi ultimi perderebbero anche quel poco che hanno) e porta alla formulazione di una legislazione che conferma formalmente i vantaggi in cui i «ricchi» già si trovano
La riforma politica: il Contratto Sociale
Nel 1762 Rousseau pubblica il Contratto sociale e l’Emilio in cui si trovano le risposte filosofiche alle sue critiche verso la civiltà.
Il Contratto sociale ruota attorno al tema del primato della politica; significa che la comunità umana, organizzata con le sue leggi, è più importante del «diritto naturale».
Nell’Emilio, fondamentale libro di pedagogia, viene sostenuta, invece, l’idea che l’educazione può tutto. Infatti, una buona educazione trasforma l’uomo, così come una buona politica trasforma la società.
L’uomo, dunque, può essere cambiato: politica ed educazione sono gli strumenti più adatti a farlo.
Nel Contratto sociale Rousseau sostiene che sia necessario creare una nuova società per rendere l’individuo migliore poiché quella attuale, in cui è presente una scissione tra essere e apparire, è sbagliata. Bisogna, dunque, attuare una rivoluzione per cambiare le cose.
Tuttavia non bisogna cercare di tornare allo stato di natura originario, sia perché il passato è irrecuperabile sia perché in effetti il passaggio dallo stato naturale alla società permette una crescita dell’uomo dal punto di vista morale. Nello stato di natura l’uomo è libero e felice, ma senza meriti, perché non deve controllare se stesso; per vivere nella società invece deve rispettare i diritti degli altri, e quindi imparare a controllare le proprie passioni in nome dell’interesse collettivo. Non esiste un diritto naturale; il diritto nasce solo con la fondazione del diritto civile.
Nel 1762 Rousseau pubblica il Contratto sociale in cui si trovano le risposte filosofiche alle sue critiche verso la civiltà.
La premessa da cui muove questo libro è che l’uomo, diventato cattivo a causa della società, può però essere cambiato e la politica è lo strumento per farlo. Il Contratto sociale ruota così attorno al tema del primato della politica: in altre parole, la comunità umana, organizzata con le sue leggi «positive» (ossia pensate, volute e decise dagli uomini), è più importante del «diritto naturale», ovvero dell’insieme di norme che possono essere tratte dalla natura immutabile. Anzi, Rousseau si spinge a sostenere che in realtà non esiste alcun diritto naturale prima della fondazione del diritto civile (quello basato appunto sulle leggi esplicite poste in essere dagli uomini).
Nel Contratto sociale Rousseau dichiara di volersi occupare non delle società reali esistenti, ma dei principi sulla cui base le società potrebbero essere giuste. Tornare allo stato di natura è impossibile: l’uomo in realtà è un «essere socievole o fatto per diventarlo»
Il punto di partenza è il patto o il contratto, ossia un accordo tra i cittadini. Nella filosofia precedente a Rousseau era già apparso questo concetto con il filosofo inglese Hobbes il quale, però, parla di pactum subiectionis: si tratta di un tipo di patto verticale stipulato tra i sudditi e il sovrano, nel quale i primi rinunciano a tutti i propri diritti ponendoli nelle mani del sovrano in cambio della protezione personale. L’unico diritto che ha il suddito è quello della vita: il sovrano non può chiedergli di suicidarsi perché andrebbe contro il patto (mentre può chiedergli di andare a rischiare la vita in guerra in nome della sopravvivenza dell’intero corpo sociale) .
Quello di Rousseau, invece, è un pactum societatis, ossia un patto per così dire orizzontale tra i cittadini che si accordano tra di loro e non con il sovrano. La differenza è sostanziale: l’obiettivo del patto, secondo Rousseau, è quello di dar vita a una società che protegga la vita e i beni dei suoi membri (come la società nata dal pactum subiectionis) ma che contemporaneamente garantisca a tutti i suoi membri la stessa libertà di cui ciascuno godeva prima di stringere il patto.
La prima condizione dell’esistenza di questo patto è l’assoluta unanimità: tutti i membri della comunità devono aderirvi, nessuno escoluso. Chi sceglie di non aderirvi deve anche accettare di uscire dalla società.
La seconda condizione del patto è che ognuno cede tutti i propri diritti alla comunità che glieli restituisce rafforzati. L’intuizione fondamentale di Rousseau è che questo è l’unico modo che i cittadini hanno di conservare la propria libertà: se io mi consegno a tutti, cedendo i miei diritti alla comunità in quanto tale, non mi consegno a nessun uomo particolare e concreto, che possa diventare il mio sovrano o almeno il mio capo; inoltre, in questi “tutti” a cui io mi consegno sono compreso anch’io, per cui in realtà consegnandomi alla comunità io mi sto consegnando a me stesso.
La totale uguaglianza tra i membri della società (che sussiste perché tutti i membri hanno consegnato tutti i diritti) garantisce la perfetta integrazione tra individuo e società: ciascuno sentirà gli interessi della comunità come propri interessi, e quindi ciascuno rinuncerà ai propri interessi egoistici a favore della comunità.
Questa decisione fa nascere un io comune, quella entità politica nuova che si crea nel momento in cui ciascuno rinuncia a i propri diritti naturali e istintivi e li consegna ai cittadini, suoi pari, che fanno lo stesso. Di conseguenza, se ognuno fa così, tutti si ritrovano privi dei propri diritti i quali sono nelle mani di questa nuova comunità, che però non può appropriarsene; quindi la sovranità appartiene al popolo. Qusto io comune è caratterizzato da una volontà generale che deve essere tenuta ben distinta dalla semplice volontà di tutti: quest’ultima infatti è semplicemente la somma algebrica o vettoriale delle volontà dei singoli individui, mentre la volontà generale è qualcosa di inalienabile e indivisibile che appartiene a un livello ontologico diverso (quello appunto dell’io comune, che è ciò che fa esistere la nuova comunità).
Siamo di fronte a una socializzazione radicale dell’uomo. Il singolo cittadino deve pensare a sé solo insieme agli altri, che non possono mai essere considerati come strumenti ma solamenti come fini in sé. Nessuno deve obbedire a un altro cittadino, ma tutti devono obbedire alle leggi, che sono espressione della volontà generale. L’uomo, dalla condizione di natura, si è elevato con fatica attraverso il contratto sociale alla condizione di «animale politico», che per Aristotele era la condizione naturale e spontanea.
La volontà generale è tutto: rappresenta la coscienza pubblica che è lo Stato. Essa è in sé sempre retta e ha sempre ragione, anche se il giudizio che la guida non è sempre illuminato e i cittadini non sono sempre informati in modo corretti sulla questione che viene discussa. Di conseguenza «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo [sociale]; ciò non significa altro che lo si obbligherà a essere libero».
La sovranità (cioè il potere) non può quindi che appartenere al popolo: la proposta politica di Rousseau quindi è fondalmentalmente e radicalmente democratica, anche se lo stesso filosofo riconosce la difficoltà e forse addirittura l’impossibilità di una autentica democrazia diretta. Il popolo può affidare a organi particolari il governo, ossia l’esercizio del potere, e Rousseau dedica molte pagine alla descrizione dei vari tipi di governo possibili (classicamente divisi in democrazia, aristocrazia e monarchia). Al termine di questa rassegna, riconoscendo la necessità di limitare la forza del potere esecutivo rispetto a quello legislativo (il vero potere, che emana dal popolo), Rousseau propone una divisione delle funzioni tra magistrati che si possono controllare a vicenda.
Deve essere ben chiaro che il “contratto sociale” è una figura teorica più che un fatto storico (dato che è impossibile riunire fisicamente milioni di persone per siglarlo); la forma di stato che più si avvicina a questo modello è la democrazia diretta in cui tutti partecipano. Ciò, però, rimane comunque impossibile, e così bisogna “rassegnarsi” forme di governo rappresentativo. Rousseau si dimostra scettico sulla possibilità di un vero governo democratico perché i singoli individui solo raramente sanno mettere da parte i propri interessi per governare in nome del bene comune.
Nei fatti, nella storia è accaduto più volte che un piccolo gruppo si autoproclamasse l’unico in grado di interpretare la volontà generale e su questa base si impadronisse del potere, trasformando la democrazia in dittatura. I casi più famosi sono Robespierre durante la Rivoluzione francese e Lenin durante quella russa.
L’educazione e l’Emilio
La società per Rousseau corrompe l’uomo, perciò per costruire una società migliore sono necessari uomini nuovi, che siano stati educati lontani dalla società. L’unica alternativa è che essi crescano a stretto contatto con la natura. La proposta di Rousseau è affidata all’Emilio, un libro a metà strada tra il romanzo e il saggio pedagogico, che descrive appunto l’educazione del bambino Emilio dalla nascita fino alla adolescenza e che viene considerato il punto di inizio della pedagogia moderna.
Anche questo processo, come quello del Contratto Sociale, è teorico; non si può infatti davvero tenere un bambino lontano dalla società e da ogni contatto con altri esseri umani (per esempio altri bambini). Bisogna intendere quindi la storia di Emilio e del suo pedagogo come un esperimento mentali, in cui ci si chiede cosa potrebbe accadere se un bambino venisse veramente educato in questo modo.
Il punto di partenza di Rousseau è una riflessione sulla natura dell’uomo e lo scopo della educazione.
L’uomo è un essere complesso, scisso tra razionalità, sentimenti e passioni. La ragione è sovrana nei campi che le spettano, ma ha dei limiti, per esempio nella religione dove invece l’uomo dovrebbe essere guidato dal sentimento interiore (ossia la percezione dei propri bisogni e di ciò che è collegato ad essi). Lo scopo dell’educazione è quello di dare forma a un uomo integrale, ossia capace di sviluppare tutte le proprie dimensioni e non solo quelle razionali e conoscitive. Per fare ciò bisogna sempre ricordare la specificità del bambino, che non è un «adulto in piccolo» come invece crede la pedagogia tradizionale imponendogli compiti impossibili per lui.
Il principio fondamentale dell’educazione roussoviana è il principio di spontaneismo o «educazione negativa»: il bambino deve imparare dalla esperienza diretta delle cose e non dai discorsi astratti dell’educatore. Quest’ultimo deve piuttosto predisporre le condizioni favorevoli perché il bambino viva le esperienze che lo faranno crescere. Il bambino crescerà in modo spontaneo nel modo migliore sviluppando le proprie potenzialità da solo. Il bambino infatti è per natura buono. Educazione «negativa» significa che non si tratta di imporre al bambino i criteri della società (fatta da adulti), ma che bisogna creare gli spazi che il bambino riempirà da solo.
L’educazione quindi dovrà essere anche attiva, nel senso che il bambino dovrà essere guidato a interagire col mondo, mettendolo a contatto con la natura e facendogli fare numerose attività pratiche e manuali. Bisogna lasciare che il bambino esplori il mondo senza imporre una serie di nozioni da ripetere.
Il secondo fondamentale principio è quello secondo cui «ogni età e condizione di vita ha la sua propria perfezione»: Rousseau sostiene con forza che è profondametne sbagliato pretendere che a cinque anni un bambino faccia cose che per sua natura farebbe a dieci anni.
La sua formazione nella primissima infanzia deve partire dalla sensibilità, portandolo a riconoscere gli oggetti. Quando sarà comparsa la capacità di riflettere sulle proprie sensazioni bisognerà educarlo alla ragione sensitiva. Solo a questo punto, quando si saranno spontaneamente formate le capacità intellettuali, si potrà passare alla conoscenze astratte delle scienze (aritmetica, geometria, fisica…). Al termine di questa fase il bambino ha acquisito la capacità di giudicare in modo autonomo e dovrà essere formato ad evitare errori nei ragionamenti.
Non bisogna mai dimenticare, infine, che tutto il percorso educativo deve portare il ragazzo a diventare capace di entrare in società e di contribuire alla sua formazione: l’ultima fare del processo educativo sarà quindi quella dell’educazione sociale, etica e religiosa, con l’obiettivo che il ragazzo «veda coni suoi occhi e senta con il suo cuore; che nessuna autorità lo governi all’infuori di quella della sua propria ragione». L’educazione morale deve condurre alla virtù, cioè alla capacitò di scegliere tra ciò che risponde alle esigenze dell’amore di sè naturale e spontaneo e ciò che invece è prodotto dall’amore di sè e dalla società.