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Autore: Jean-Jacques Rousseau
Traduttore: Martino Sacchi
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Seconda sezione
Il vero fondatore della società è stato chi, dopo aver recintato un pezzo di terra, si azzardò a proclamare «Questo è mio!» e si trovò davanti dei sempliciotti che gli credettero. Quanti crimini, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i paletti o riempiendo il fossato, avesse in quel momento gridato ai suoi compagni: «Non ascoltate questo impostore! Siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno!».
Ma molto probabilmente le cose erano già arrivate a un punto tale che non si poteva più tornare indietro. L’idea di «proprietà» infatti non si è formata di colpo nello spirito umano, ma deriva da molte idee precedenti che a loro volta non sono potute nascere che disponendosi in una lunga concatenazione dall’una all’altra. C’è voluto molto progresso, ci si sono dovute inventare molte cose, e molto si è dovuto pensare, e tutto questo ha dovuto essere trasmesso da un’età all’altra, prima che si arrivasse al momento finale dello stato di natura.
Ricominciamo daccapo, quindi, e cerchiamo di raccogliere sotto una sola prospettiva questa lenta successione di eventi e di conoscenze, nel loro ordine più naturale.
Il primo sentimento dell’uomo fu quello della sua esistenza, e la sua prima preoccupazione fu quella di conservarsi nell’esistenza. La terra gli forniva quello che gli serviva, e l’istinto glielo faceva usare. La fame e altri appetiti gli facevano provare di volta in volta diversi modi di esistere. Tra questi istinti, uno lo invitata a perpetuare la specie: una tensione cieca, senza nessun sentimento, che produceva solo un atto puramente animale. Soddisfatto il loro bisogno, l’uomo e la donna non si riconoscevano più, e perfino il figlio non rappresentava più nulla per la madre non appena il bambino poteva fare a meno di lei.
Questa era la condizione in cui si trovava l’uomo appena comparso sulla terra: la vita di un animale limitata alle pure sensazioni, capace a stento di approfittare dei doni che la natura gli offriva e men che meno di pensare a come strapparle qualcosa per sé.
Ma presto si presentarono delle difficoltà e l’uomo dovette imparare come vincerle: l’altezza degli alberi impediva di cogliere i loro frutti, gli altri animali cercavano di portarglieli per nutrirsene, la ferocia di altri animali che volevano la sua vita, tutto questo costringeva l’uomo a esercitare il proprio corpo. Dovette diventare agile nei movimenti, veloce nella corsa, forte nella lotta. Ben presto impugnò quelle armi naturali che sono i bastoni e le pietre. Imparò a superare gli ostacoli che la natura gli metteva davanti, a combattere gli altri animali se era necessario, a contendere agli altri uomini il cibo o a prendersi un compenso per quello che doveva cedere al più forte.
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Man mano che le idee e i sentimenti si susseguivano e che lo spirito e il cuore si esercitavano il genere umano si ingentiliva, le relazioni si ramificavano e i lacci si stringevano sempre di più. Si prese l’abitudine a riunirsi davanti alle capanne o attorno a un grande albero: cantare e ballare, questi figli dell’amore e del piacere, diventarono il divertimento o meglio l’occupazione principale di uomini e donne che si trovavano lì tutti insieme senza avere nient’altro da fare.
Ciascuno cominciava a guardare gli altri e a voler essere a sua volta guardato, e il fatto di ricevere una pubblica stima iniziava a essere un premio. Chi cantava o ballava meglio, chi era il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente diventavano i più ammirati, e questo fu il primo passo verso la diseguaglianza e insieme verso il vizio: da queste preferenze presero vita da un lato la vanità e il disprezzo, e dall’altro la vergogna e l’invidia. Questi sentimenti funzionarono come un lievito che, fermentando, produsse dei composti velenosi per la felicità e l’innocenza.
Non appena gli uomini ebbero cominciato a darsi reciprocamente un valore e si fu formata nello spirito l’idea di cosa volesse dire essere tenuti in alta considerazione dagli altri, ciascuno pensò di averne diritto e non fu più possibile per nessuno essere nella condizione di non essere stimati dagli altri senza che ne derivassero delle conseguenze. Da ciò vennero i primi doveri di civiltà, anche tra i selvaggi; poi ogni torto inflitto volontariamente divenne un oltraggio, perché chi subiva l’ingiuria non solo subiva un male, ma nell’ingiuria vedeva anche il disprezzo verso la sua persona, spesso più insopportabile del male stesso. E poiché ciascuno si rivaleva del disprezzo che gli era stato dimostrato in proporzione alla stima che aveva di sé, le vendette diventarono presto terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli.
Questo è il livello di sviluppo cui sono arrivati la maggior parte dei popoli selvaggi noti. Molti studiosi, non avendo operato con chiarezza le dovute distinzioni e non avendo capito quanto questi popoli siano lontani dallo stato di natura, sono saltati alla conclusione che l’uomo è crudele per natura e che ha bisogno della polizia.
Al contrario, non esiste un essere più dolce che l’uomo primitivo, posto com’è a uguale distanza tra la stupidità dei bruti e i “lumi funesti” dell’uomo civilizzato. Egli è guidato in pari misura dall’istinto e dalla ragione a proteggersi dal male che lo minaccia, mentre la pietà naturale lo trattiene dal fare lui stesso dal male a qualcuno, perfino nel caso che sia stato lui a subirlo per primo. Come dice l’assioma del saggio Locke, “non ci può essere offesa dove non c’è proprietà”.
Ma bisogna notare che il fatto di essere già immersi in una società, con le sue relazioni già stabilite tra gli uomini, li obbligava ad avere delle qualità diverse da quelle che avevano nel loro puro stato di natura. Nelle loro azioni cominciava a insinuarsi la moralità; e prima che venissero introdotte le leggi ognuno era l’unico giudice e insieme il vendicatore delle offese ricevute. Per questo, la bontà che era adatta al puro stato di natura non era più quella che andava bene in questa forma di società appena comparsa. Le punizioni necessariamente diventavano sempre più severe, in proporzione alla sempre maggior frequenza delle occasioni di offesa, e il terrore della vendetta iniziò a sostituirsi ai limiti imposti dalle leggi. Tuttavia, anche se gli uomini erano diventati meno tolleranti, e anche se la pietà naturale non era già più quella di prima, questo periodo di sviluppo delle facoltà umane, messo proprio a metà strada tra l’indolenza dello stato di natura e irrequietezza del nostro amor proprio, è stato probabilmente quello più felice della storia umana e quello capace di durare più a lungo. Più ci si pensa, più si conclude che questo stadio di sviluppo era il meno esposto a una rivoluzione violenta ed era il migliore per l’uomo, che è stato costretto a uscirne solo per un caso disgraziato che sarebbe stato molto meglio se non si fosse mai presentato.
I popoli selvaggi, che si trovano quasi tutti a questo stadio dello sviluppo, sembrano confermare con il loro esempio che il genere umano era fatto per restare in quelle condizioni per sempre. Questa è la vera giovinezza del mondo: tutti i progressi fatti in più sono stati in apparenza passi verso la perfezione dell’individuo, ma in realtà lo sono stati verso il decadimento della specie.
Fin quando gli uomini si accontentarono delle loro rustiche capanne e si limitarono a cucire le loro vesti di pelle usando spine prese dalle piante o lische di pesce, e a decorarsi con piume e conchiglie o a pitturarsi di vari colori il corpo, e a perfezionare e ad abbellire gli archi e le frecce, e a usare solo pietre affilate per costruire una piccola imbarcazione per andare a pesca o qualche grossolano strumento musicale: in una parola, fin quando si limitarono a ciò che può essere fatto da una persona da sola usando quelle tecniche che non hanno bisogno della collaborazione di più lavoratori, essi furono liberi, sani, buoni e felici nei limiti in cui potevano esserlo per natura, mantenendo tra loro rapporti che non li vincolavano reciprocamente e che perciò erano dolci. Ma nel momento in cui un uomo ha avuto bisogno dell’aiuto di un altro, nel momento in cui ha capito quanto fosse utile, per una persona, avere le provviste che sarebbero bastate per due: ecco, in quel momento l’uguaglianza è scomparsa, il concetto di proprietà privata si è introdotto di soppiatto, è diventato necessario lavorare e le vaste foreste si sono trasformate in ridenti campagne che andavano irrigate col sudore dell’uomo, e dove ben presto la schiavitù e la miseria sono germogliate e cresciute insieme alle messi.
Questa grande rivoluzione fu prodotta dall’invenzione di due tecnologie: la metallurgia e l’agricoltura. Per il poeta sono stati l’oro e l’argento a portare l’uomo nella civiltà e a condannare l’umanità, ma per il filosofo stati il ferro e il frumento. Proprio perché non conoscono nessuna delle due tecnologie i selvaggi americani sono rimasti al loro livello di sviluppo, mentre gli altri popoli barbari sono tali perché ne hanno conosciuto solo una. E forse una delle ragioni più convincenti per cui l’Europa sia una delle regioni del mondo più civilizzate, se non la più civilizzata in assoluto, sia l’abbondanza di ferra e la grande disponibilità di frumento.
È molto difficile ricostruire come gli uomini sono arrivati a conoscere e a usare il ferro, poiché non si può credere che abbiano immaginato da soli di estrarre il minerale dalle miniere e di prepararlo per la fusione prima di sapere cosa ne sarebbe venuto fuori.
[Dopo aver presentato alcune ipotesi Rousseau ipotizza che gli uomini abbiano imitato quello che potevano aver visto in qualche vulcano.]
Quanto all’agricoltura, i suoi principi dovevano essere noti molto prima che venissero messi in pratica: non è assolutamente possibile che gli uomini, continuamente impegnati a ricavare il cibo per vivere dagli alberi e dalle piante, non si siano fatti ben presto un’idea dei modi che la natura segue per far nascere i vegetali. Tuttavia probabilmente ci si dedicarono piuttosto tardi, per diversi motivi: prima di tutto gli alberi, da cui traevano insieme alla caccia e alla pesca il loro sostentamento, non avevano bisogno delle loro cure. Inoltre non conoscevano l’uso del frumento e non avevano gli strumenti per coltivarlo. Infine non erano capaci di prevedere i propri bisogni futuri e non avevano i mezzi per impedire agli altri di impadronirsi del frutto del loro lavoro. Una volta che si fu sviluppata la loro capacità inventiva pratica, si può ipotizzare che abbiano usato pietre acuminate e bastoni appuntiti per coltivare qualche legume o qualche radice vicino alle loro capanne, molto prima che sapessero coltivare il frumento o che avessero a disposizione gli strumenti per coltivare terreni più grandi. Bisogna anche tener conto del fatto che per darsi a questa occupazione e cominciare a seminare bisogna decidersi a rinunciare a qualcosa subito per guadagnare molto di più in seguito. Si tratta di qualcosa di totalmente estraneo alla mentalità dell’uomo primitivo, che …. riesce appena a immaginare la mattina ciò di cui avrà bisogno alla sera.