Epicuro è il primo filosofo a trarre tutte le conseguenze dall’affermazione (che non è stato certo lui a inventare) che la felicità è il piacere e il piacere consiste nel soddisfacimento di un bisogno.
Il nocciolo della questione consiste nel fatto che il bisogno è qualcosa di limitato: è una mancanza che deve essere sanata, un vuoto che deve essere riempito. Per Epicuro questo era essenziale: il limite offre la forma, cioè quel modo di essere che può essere raggiunto in modo definitivo e che non ha più senso oltrepassare. Questo schema di ragionamento si applica in modo perfetto alla fame, che non a caso diventa il paradigma (in positivo e in negativo) del modello epicureo. Quando ho soddisfatto l’appetito, in qualunque modo io lo faccia, il bisogno è sparito: se riesco a convincermi che la felicità è il «far sparire» i bisogni quindi il tornare in una situazione di equilibrio in cui il bisogno è assente, allora posso essere felice con un pezzo di pane secco.
Il bisogno (quello che noi avvertiamo come «bisogno») è in realtà l’alterazione di un equilibrio che deve essere ristabilito. Tornare allo stato di equilibrio preesistente è il massimo cui possa aspirare l’uomo. Se questo è il vero obiettivo, e se per raggiungere questo obiettivo tutti i mezzi sono buoni allora, per una sorta di «rasoio di Ockham» ante litteram applicato all’etica piuttosto che alla logica, è conveniente scegliere la via più semplice, quella appunto per la quale si dice che il piacere «è facile da ottenere». Infatti Epicuro (e tutti coloro che si muovono su questa lunghezza d’onda) non condanna affatto i cibi buoni e preziosi in sé, non afferma affatto che i piaceri sofisticati e raffinati siano «male»: dice solo che sono inutili, o meglio sostiene che è inutile darsi tanto da fare per ottenere, alla fine, lo stesso risultato che si può ottenere con molto meno sforzo. Insomma, è conveniente fare il minor sforzo possibile.
Tuttavia ci si può chiedere se la felicità possa essere identificata completamente ed esclusivamente nel soddisfacimento di un bisogno (e quindi nel ristabilimento di un equilibrio).
In una visione come questa l’obiettivo è il mantenimento di una situazione. Paradossalmente, se si potessero eliminare i bisogni saremmo nella condizione di felicità perfetta, ossia saremmo «simili a Zeus», come scrive Epicuro alla fine della sua Epistola a Meneceo.
Questa considerazione suggerisce di aprire una feritoia verso un piano del discorso completamente diverso, che ci fa scivolare verso la psicopatologia contemporanea: una delle strategie infatti che la psiche adotta inconsciamente come rimedio ai problemi suscitati dal rapporto col mondo e con gli altri è (esattamente nella prospettiva che abbiamo appena tratteggiato) quella di ridurre ai livelli minimi i bisogni corporei, fino a sconfinare nella patologia (anoressia).
Torniamo al filone principale delle nostre riflessioni. Ciò che impedisce normalmente di trovare un equilibrio in assenza di forze è il fatto che le dinamiche biologiche si incaricano di alterare continuamente gli equilibri chimici del nostro corpo e innescano perciò ciclicamente la richiesta di un ritorno alle condizioni originarie. La ciclicità di questa richiesta è qualcosa che noi subiamo: la concezione della felicità che ne su di essa si basa è segnata dalla passività. Io subisco un bisogno e sono felice quando riesco a soddisfare il bisogno ritrovando un equilibrio perduto. Se il bisogno non mi aggredisse io rimarrei per sempre in una sorta di «stato di inerzia» psicologica, nel senso che non cercherei di cambiare il mio stato fino a quando qualche impulso dall’esterno non venisse a modificare il mio status. In questo Kant aveva indubbiamente ragione.
Il problema è vedere se questa è davvero la concezione autentica della felicità.
Se io lego la felicità alla percezione di me, o almeno introduco l’autocoscienza come parametro essenziale per caratterizzare il momento della felicità, le cose cambiano.