Se penso a cosa si può sopportare, quante fatiche, quante scomodità si possono sopportare e si sopportano di fatto quando c’è bisogno, quando c’è veramente bisogno; se penso alle veglie accanto ai malati, alle veglie accanto ai poppanti, alla fatica di ricominciare a pulire quando tutto è sporco e non si riesce nemmeno a intravedere la fine del lavoro e dello sporco; se penso a queste cose, quanto mi sembra di essere meschino e basso quando mi lamento; e francamente, penso che siano bassi e meschini anche quelli che si lamentano. I miei studenti poi mi fanno semplicemente ridere quando sostengono di fare troppa fatica e di non farcela più. Rido tra me senza farmi vedere, rido sotto i baffi, rido per non piangere, perché questi ragazzi non hanno ancora vissuto e non sanno cosa sono le fatiche.
Non mi riferisco alle fatiche normali, quelle di tutti i giorni, come sollevare un peso o portare la spesa; penso a quelle fatiche estreme che regala la vita, quelle fatiche da monte Everest che a tutti tocca affrontare, prima o poi. Sono fatiche sovrumane, che non sono fatiche fisiche. Una fatica fisica, per così dire, si gioca sullo scatto: dieci secondi, dieci minuti, al massimo dieci ore (ma dove lo trovi oggi uno che fa una vera fatica fisica per dieci ore tutti i giorni?); la fatica di cui parlo io si gioca sulla durata. Non ti chiede in sé niente di terribile: cambiare i pannolini, tenere una mano, cantare una canzone, pulire un pavimento. E che sarà mai? Anche una notte in bianco, via, vogliamo scherzare? siamo uomini o quaquaraquà? Non vorrete mica dirmi sul serio che voi pensate che sia una fatica? No, queste fatiche da non prendere neanche in considerazione. No, io penso a quelle fatiche che gocciolano nella nostra vita come un rubinetto che perde e che goccia dopo goccia sciolgono la resistenza anche dei più forti: penso veglie che durano mesi o anni a fianco di un malato di tumore, o a fianco di un lettino dove c’è un bebé che piange, e piange, piange, o su un libro per un esame da cui dipende la tua vita o quasi (e tutte queste cose possono avvenire insieme). Io penso a quelle fatiche che si ripresentano uguali giorno dopo giorno, come se nulla fosse stato il giorno prima, come se la fatica del giorno prima non avesse spostato di un millimetro i fattori in gioco, come se tutto fosse stato inutile: cosicché a te tocca ricominciare da capo, come se tutto fosse uguale a ieri. Ma tu non sei uguale a ieri. Per quanto giovane e pieno di energia tu possa essere, oggi ne hai un po’ meno di ieri. Solo un po’, non tanto, così che tu possa fingere di essere esattamente come ieri: ma non lo sei. Le forze scivolano via da te, e tu lo sai e fingi che non sia così, perché altrimenti ti fermeresti e invece non puoi.
Questo è il punto. Non puoi fermarti. Se ci si potesse fermare, se si potesse dormire, tutto sarebbe diverso. La fatica non esisterebbe se si potesse dormire; ma poter dormire significa avere tempo, e avere tempo è il contrario dell’aver fatica.
Non puoi fermarti perché la vita te lo impedisce. Tu potresti fermarti solo a prezzo di uscire dalla vita, di infilarti in una di quelle anse di acque morte dove i fiumi vanno quando non sanno più dove andare.
Ho provato anch’io cosa vuol dire alzarsi e viaggiare nella notte, al freddo e nella neve, quando c’era bisogno. Ho provato anch’io a guidare al buio, senza sapere bene la strada, spremendo i muscoli delle gambe e delle gambe per rimanere sveglio, perché era l’unico movimento che potevo fare e solo un movimento, un movimento qualunque diverso dallo stare aggrappato al volante, poteva tenermi sveglio, perché non bastava più neppure stringere i denti, e mordere la lingua faceva troppo male, e non potevo darmi pugni sulle gambe perché la strada era difficile e dovevo stare con tutte e due le mani sul volante.
Ci sono momenti in cui non conta la fatica, non conta il sonno, non conta la stanchezza che ti spreme i muscoli e i nervi; ci sono momenti in cui c’è una cosa che va fatta, e la fai; ti sembra di non poter fare un solo passo in avanti, e lo fai; ti sembra di non poter ripetere una volta di più quel gesto che stai compiendo, e lo ripeti.
Allora ti lasci cadere sul letto, sulla sedia, sulla poltrona ricoperta di vecchio skay marroncino, di poco prezzo, macchiata e sporca, e dici: «Dio mio, basta! Un momento, un momento solo di pace. Che tutto si fermi, per un momento solo. Che il mondo si fermi, per un momento solo» e invece naturalmente tutto ricomincia e tu devi alzarti una volta di più, e il bello è che ti alzi, ce la fai, fai quello che devi fare.
Adesso le mani volano leggere sulla tastiera, e ogni tocco delle dita è una nuova lettera che appare sul monitor. Le lettere che scrivo, e che metto in fila una dopo l’altra per comporre le parole, sono come gocce che scendono da un tetto, e come le gocce scendono a frotte, a greggi, a folate; si raccolgono sulla punta delle dita, e poi scendono tutte di fila, come dei pinguini che si buttano in mare dal loro lastrone di ghiaccio: una tira l’altra, come gli anelli di una collana leggera e diafana, che regge lo sforzo solo a tratti, e poi si rompe, e poi si ricompone, e poi si rompe di nuovo, proprio come una fila di gocce che scende dal tetto.
La fatica, quella vera, lisa la vita, la assottiglia come un’ancia di bambù, la rende liscia e diafana come un listello su cui passi e ripassi la carta vetrata, e da cui cade una polvere sottile, che vedi a stento ma che c’è, e vedendola scendere ti rendi conto che il legno si sta consumando anche se a vederlo ti sembra esattamente come prima: e sai che prima e poi verrà un momento in cui il legno non reggerà più e si spezzerà.
Che noi resistiamo a questa fatica è un miracolo. L’unica risposta che so darmi è che la vita è più grande di noi.
Perciò forse non vale la pena arrabbiarsi e pensare che non è giusto fare tutta la fatica che facciamo. La vita è più forte di noi e scivola dentro di noi, e ci riempie di nascosto, evidentemente, giacché noi non ce ne accorgiamo; forse gocciola nelle pieghe dei nostri pensieri, di soppiatto, e si intrufola piano piano quando noi guardiamo da un’altra parte; e forma come un laghetto di rugiada nell’incavo di una foglia al mattino che ti sorprende quando meno te l’aspetti e tutto sommato è come trovare un tesoro, un piccolo luccicante tesoro. Piccoli tesori quindi, che trovi per strada come i sassolini che Pollicino lasciava dietro di sé per tornare a casa, sono quelli che ci fanno andare avanti.
Senza la fatica impastata di fango e sudore resta una vita di plastica, senz’altro.