Uno dei contributi più interessanti apparsi negli ultimi tempi nel panorama della didattica è il libro di Susanna Sancassani et alii La ricerca del giusto mezzo. Strategie di equilibro tra aula e digitale, pubblicato da Pearson colpevolmente solo in formato cartaceo.
Prima di tutto, si tratta di un lavoro concentrato finalmente sulla didattica universitaria, estendibile (con qualche distinguo) a quella delle scuole superiori: non è uno di quei libri che promettono mari e monti e poi si scopre che parlano solo dei “bambini”, ossia studiano solo la didattica nella scuola primaria.
La nozione centrale è quella di “Rete di apprendimento”, già presentata i Progettare l’innovazione didattica, sempre della Sancassani e sempre di Pearson, apparso nel 2019: l’idea chiave è riconoscere che il processo di apprendimento avviene quando gli attori dell’apprendimento si scambiano informazioni attraverso i canali che collegano gli attori stessi (Sancassani: 2023, 14). Il concetto di Rete di apprendimento si è sviluppato nella idea di Smart Learning Design 25 (SLD25) del nuovo libro: in mezzo, l’esperienza traumatica del Covid e della DaD.
In effetti si percepisce fortissimo lo “stare nel tempo presente” degli autori, che fanno costantemente riferimento alle esperienze didattiche indotte dal lockdown come a un “acceleratore” di processi già in atto (la Sancassani tra l’altro è una forte sostenitrice dei MOOC come una delle strategie didattiche da perseguire, soprattutto per una questione di equità sociale e politica).
Il libro quindi inizia con una carrellata sulle “pratiche praticabili”, recuperando e valutando tutto quello che si è fatto in DaD (dalle videoconferenze in giù) ma partendo da una chiara impostazione costruttivista:
Nella prospettiva che proponiamo, l’apprendimento non è qualche cosa che viene impartito o trasmesso dall’insegnante allo studente, ma qualcosa che gli studenti devono creare per sè stessi (Sancassani: 2023, 28)
Una idea molto forte che attraversa tutto il libro è quella di “aula estesa“, ovvero la consapevolezza che il processo di apprendimento non inizia, non finisce e forse nemmeno si svolge prioritariamente nel flusso esclusivo docente-studente: proprio l’esperienza della DaD ha obbligato ad abbattere i muri delle aule e riconoscere un cosa solo apparentemente ovvia, ossia che impara in molti modi, in molti posti, da molte persone,e che i mezzi informatici come Zoom e Meet hanno senso quando permettono questo allargamento ramificato delle fonti cui apprendere.
I docenti delle scuole superiori troveranno nel libro molti concetti ben noti, dai Risultati di Apprendimento Attesi dagli Eventi di apprendimento (Sancassani: 2023, 46) (che appaiono molto simili agli EAS di Rivoltella), alla flipped classroom.
Uno dei grandi meriti del libro è quello di fornire una serie di riferimenti aggiornati (molto raramente i riferimenti bibliografici risalgono a più di dieci anni fa) su tutte le tematiche trattate (qui uno dei pochissimi appunti che si possono fare al libro è che la bibliografia è quasi esclusivamente in inglese, un fatto che la renderà indigesta, temo, a buona parte dei docenti italiani).
In ogni caso questa rete di riferimenti permette di posizionare e rivalutare criticamente tante prassi comuni nelle nostre aule, come il “ripasso veloce tramite domandine dal posto”,che ho scoperto chiamarsi “retrieval”.
Ampio spazio viene riconosciuto al problema dei luoghi in cui si apprende, ossia alla necessità di curare con attenzione il setting degli ambienti in funzione delle attività che vi si solvgono: è il concetto di Loris Malaguzzi dell’aula come “terzo maestro” (Sancassani:2023, 187) dopo la famiglia e la scuola come comunità. Gli autori lo elaborano con la limpida consapevolezza che l’abito non fa il monaco e che quindi non bastano pc e digital board per fare la differenza: il mezzo tecnico si giustifica solo sulla base di un robusta progettazione dell’attività didattica, nella chiarezza di un impianto teorico adatto.
Essenzialmente si distinguono un set frontale a bassa interattività, un set ad alta interattività e un set collaborativo (o “hands on”), ciascuno dei quali corrisponde a una particolare attività di apprendimento/insegnamento. Mi permetto di sottolineare che nel libro non ho trovato una “condanna” della lezione frontale (anche se indubbiamente le simpatie vanno agli altri due tipi di lavoro, più “attivi” dal punto di vista degli studenti): personalmente, essendo convinto che la pedagogia sia un’ “arte” (nel senso nobile del termine) e non una “scienza” (e men che meno una scienza deduttiva), mi ispiro a un sano pragmatismo il più possibile scevro di pregiudizi. Alcune cose, indubbiamente, vengono meglio con una lezione frontale tradizionale, con tanto di docente fermo in cattedra; altre riescono meglio dialogando con i ragazzi, altre ancora facendo scrivere loro un vero e proprio libro (come faccio con il Filo di Arianna). Non si può stabilirlo a priori, ma appunto solo nella progettazione concreta caso per caso.
Una volta chiarito con forza questo principio, che percorre tutto il libro, bisogna riconoscere che le conseguenze pratiche suggerite sono anche abbastanza ovvie: per esempio, non si può pensare di organizzare una lezione “ad alta interattività” (che prevede lo spostamento degli studenti e la riconfigurazione dei banchi e delle sedie) in un’aula a emiciclo, pensata per la scuola-teatro (Sancassani: 2023, 194)!
La parte finale del libro è infine dedicato a due “cavalli di battaglia” della Sancassani e del METID, la task force del Politecnico di Milano diretta dalla collega: la didattica attraverso i MOOC (Massive Open Online Courses, pronuncia: [/muːk/] ) e il tema delle Open Educational Resources, valorizzate soprattutto come strumento per una diffusione eticamente giusta della conoscenza, nel quadro delle indicazioni ONU
Molto interessante e concettualmente all’avanguardia è il fatto che il libro è pensato in stretta sinergia proprio con un MOOC, Smart Learning Design, pubblicato sulla piattaforma POK del Politecnico di Milano.
L’unico appunto che forse si può muovere a questo libro di grande valore e assolutamente da leggere è il fatto che non sono presenti veri “casi di studio”, o comunque non vengono descritti con un grado di articolazione tale da poterli assumere come modelli pratici da imitare o almeno cui ispirarsi.
Ma è proprio l’unico appunto (che non è nemmeno una vera critica).
Osservazione a margine
Una cosa che colpisce è che costantemente gli autori parlano di “raccolta delle informazioni” da parte degli studenti come primo passaggio nella costruzione del loro sapere. L’uso di questa parola, “raccolta”, dice tutto: ovvero dà per scontato o almeno introduce come premessa il fatto che gli studenti si dispongano in una modalità proattiva, non soltanto quindi “ricettivi” del “sapere” che viene loro “versato” dall’alto delle cattedre, ma positivamente impegnati in una ricerca autonoma. Ah. Un momento però: se siamo arrivati a questo punto, abbiamo già fatto il novanta per cento del percorso. Uno studente che funziona così, funziona così con qualsiasi docente e qualsiasi metodologia didattica: funzionava bene anche cent’anni fa, ai tempi di Gentile e della sua scuola volutamente selettiva. La vera domanda è: come nascono queste persone? Come si fa a ottenere questo? Io credo che tutti gli insegnanti di questo mondo, tranne forse la Paola Mastrocola, vorrebbero studenti di questo tipo e teorizzerebbero, se richiesti, che gli studenti devono fare proprio questo: appropriarsi dei contenuti, farli propri, riflettere in modo autonomo, esprimere giudizi personali, rielaborare spontaneamente, porsi e porre domande, leggere nuovi libri, discutere con i compagni. Non è forse vero? La questione è che questi comportamenti non sono affatto spontanei, non dall’adolescenza in poi, almeno (mentre lo sono nei bambini piccoli).