Nella tradizione occidentale (cioè greca) c’è un concetto (non è propriamente un concetto, ma non so che altra parola usare) che mi ha sempre affascinato e che è sempre stato alla base delle mie riflessioni: la nozione del “phainesthai” come manifestarsi dell’essere. Era un’idea del mio maestro Bontadini, che la usava per tenersi lontano da Heidegger (tra le altre cose). Il “noein” di Parmenide è la capacità che noi siamo di lasciar manifestare l’essere. In questo senso “il pensare e l’esistere” sono to autòn. Lasciar esistere l’essere, lasciarlo manifestare vuol dire molte cose: per me è stato sempre un criterio esistenziale molto forte, che mi ha permesso per esempio di tenere insieme esperienze diversissime come l’amore e la curiosità per la natura, lo sport e la fotografia. E’ anche un criterio etico molto potente: è bene ciò che contribuisce al manifestarsi dell’essere, male ciò che porta alla chiusura di questo manifestarsi.
Questo “lasciar manifestare l’essere” è fonte di felicità, perché dal mio punto di vista è simmetrico all’approfondimento della consapevolezza di me stesso e del mio atto di esistere in quanto manifestazione dell’essere (in cui appunto la felicità consiste). E’ un agire che non è un agire (nel senso che non implica una manipolazione delle cose attorno a me: anzi, se mi concentro sugli “enti” per modificarli proietto su di essi un mio progetto che probabilmente di fatto finirà per nascondere il manifestarsi dell’essere stesso, anche se in linea di principio non è che necessariamente deve finire così); e tuttavia non è una passività e non esclude affatto l’azione nel senso normale del termine (quando scatto una fotografia o la manipolo con PhotoShop intervengo con un alto livello di sofisticazione tecnica – sarebbe lo stesso se sapessi dipingere o scolpire -; se questo agire ha successo, però, l’oggetto che ottengo è in qualche modo degno di contemplazione perché in qualche modo – scusa la ripetizione – contiene una manifestazione dell’essere, anzi è esso stesso una manifestazione dell’essere).
Non posso e non riesco a concepire questo “lasciar apparire l’essere” come una negazione della mia identità. E’ in questa parola (“identità”) che si annida, credo, il “crampo linguistico” decisivo: intendiamo l’identità di modi diversi (temo) rispetto, per esempio, i buddisti. Non potremmo confrontarci su questo?
Nella tradizione occidentale la nozione di “psychè” aristotelica è stata probabilmente fraintesa in modo colossale, quando è stata assimilata alla “substantia” e questa alla “cosa” o almeno all’ “ente”. leggo sempre in classe Metafisica Z 17: la morfè esiste sicuramente ma non può essere nello stesso modo in cui esistono gli elementi che tiene insieme. In questo senso, si potrebbe dire tranquillamente che “l’anima (o l’io, se preferisci) non esiste”. In fondo è quello che buona parte della tradizione occidentale ha sempre detto, quando ha sostenuto che è “immateriale”. Solo che poi, spesso, ha finito per ipostatizzare quell’ “immateriale” in un ente, solo trasparente e quindi invisibile. Un po’ come fa Dorè quando raffigura le anime della Divina commedia (e tutti quelli che cercano di raffigurare l’anima, ovviamente)
“L’anima è in qualche modo tutte le cose”: sempre Aristotele, che però si dimentica di precisare: “da un particolare, unico e irripetibile punto di vista”, che è ciò che chiamiamo “io” (cui, appunto, non posso e non voglio rinunciare, senza però ricavarne la conseguenza che “la metafisica è violenza” (per me è davvero una stupidaggine, per non dire altro. So benissimo come nasce questa idea, e non condivido l’interpretazione).