Come tutte le cose importanti della vita, parlare della felicità sembra facile: e non lo è. Parafrasando la celebre frase di Agostino, se nessuno mi chiede cosa sia la felicità, la so riconoscere benissimo, ma se qualcuno mi chiede di spiegargli che cosa sia, non lo so più.
Come per tutte le cose importanti della vita, tutti si sentono autorizzati a esprimere il loro parere: e giustamente, dal momento che qualunque sia la risposta che viene data essa condiziona (o dovrebbe condizionare) l’esistenza successiva di chi la fornisce.
Perciò in questo come in altri casi (la giustizia, la bellezza, la bontà…) l’intervento della filosofia sembra inutile, astratto e pallido, assorto soprattutto a dialogare con se stessa e con il proprio passato. La felicità è qualcosa che sembra, che appare, che è impastata inesorabilmente con la vita. Qualunque cosa sia, ha a che fare col sangue e la carne, la veglia e il sonno, il bere e il mangiare, l’amore e il sesso. Come fa a parlare di felicità chi non ha tenuto in braccio il proprio figlio appena nato, chi non ha goduto nel talamo, chi non ha assaporato la conquista di una meta? Quando si ascoltano i filosofi parlare della felicità, usando tutte le armi logiche e retoriche del loro mestiere, costruendo astratte metafore ed esangui sillogismi, il contrasto tra la concretezza carnale esistenziale del tema e l’astrattezza formale della sua discussione lascia senza fiato. Lasciate dunque i filosofi alle loro polverose aule, e viviamo dunque!
Tutta questa argomentazione, naturalmente, ha il suo lato di verità. «Primum vivere» dovrebbe campeggiare su tutti gli architravi di tutte le università di filosofia del pianeta. E tuttavia, naturalmente, le cose non sono così semplici.
Esiste ancora la domanda di felicità? Ovvero, in modo più radicale: esiste ancora la richiesta di felicità? Sembra una domanda fuori luogo e senza senso dal momento che, si dice, noi tutti vogliamo la felicità.
Ma che cosa vogliamo veramente quando diciamo di volere la felicità? Ovvero: cosa intendiamo realmente quando usiamo la parola «felicità» per indicare quello che desideriamo?
Evidentemente si tratta di due domande diverse (la prima equivale a chiedersi se vogliamo la felicità, la seconda invece a che cosa è la felicità) e tuttavia strettamente intrecciate.
Cominciamo dalla prima, quella più paradossale e più strana.
Una recente ricerca, apparsa fugacemente nelle pagine interne di alcuni quotidiani, ha cercato di parametrare la «consapevolezza di felicità» in alcune società del mondo occidentale evoluto, fornendo un risultato largamente prevedibile: la percezione di sé come «persone felici», o almeno soddisfatte di sé e delle proprie condizioni, non è legata da una relazione diretta ai parametri economici oggettivi. Detto in parole più semplici, il migliorare concretamente le proprie condizioni di vita (con stipendi più elevati, un benessere materiale vario e ramificato, una assenza di preoccupazioni per la propria sopravvivenza, una tecnologia più sofisticata e intrigante, perfino con una maggiore disponibilità di tempo libero per godere dei beni precedenti) non significa automaticamente «essere più felici». Paradossalmente (ma non tanto), la ricerca rivela che la maggior parte dei soggetti si sentiva più felice quando «aveva di meno» (sul piano materiale) ma aveva degli obiettivi da raggiungere. Proprio il fatto di raggiungere uno dopo l’altro gli obiettivi che si era proposti di raggiungere (anche sul piano strettamente materiale ed economico) sembrava rappresentare un potente fattore di «felicità». Nel momento in cui gli obiettivi erano stati raggiunti, però, il loro semplice possesso, da solo, non era apparso più sufficiente a generare la percezione dell’«essere felici». Quindi, una volta entrati in possesso di ciò che si bramava, ci si è scoperti meno felici di primi, se non addirittura più infelici. Detto con la saggezza popolare, «anche i ricchi piangono».
La tradizione filosofica tende a indicare la felicità in uno «status» della coscienza, in un modo di esistere della nostra persona piuttosto che nel possesso di beni, per quanto rari e preziosi: questo «status» però non è già dato, ma al contrario è qualcosa che va raggiunto e conquistato, con uno sforzo e un impegno che devono prolungarsi nel tempo.
Esiste quindi un paradosso: da un lato la felicità dovrebbe essere ciò a cui tutti hanno diritto, e dunque, a quanto sembra, dovrebbe essere qualcosa di semplice e relativamente a portata di mano; dall’altro, è qualcosa che non è così facile avere, tanto che gli uomini raramente la possiedono, o anche soltanto dichiarano di possederla. La felicità va voluta, cercata e conquistata prima di essere goduta e assaporata. Se è così, però, non è qualcosa così «a portata di mano» come era sembrato a prima vista e quindi diventa una condizione che non sempre e non necessariamente viene raggiunta.
La società occidentale ha sviluppato di fatto una visione della vita e del mondo in cui il problema del «senso», in tutte le sue forme, è stato gradualmente svalutato e posto ai margini della consapevolezza.
Al suo posto è progressivamente cresciuta una concezione di stampo protagoreo in cui l’essere, il tempo e il valore tendono a contrarsi nell’istante vissuto, che sembra essere l’unica realtà autentica e indubitabile (non posso ingannarmi se mi affido all’evidenza di ciò che provo e sento). L’istante quindi viene connotato come assoluto (nel senso etimologico di ab-solutus, «sciolto da» tutto il resto, in particolare il passato e il futuro).
La coscienza stessa tende a concepire se stessa come qualcosa che esiste e vive solo nel presente, concepito come un istante senza passato e soprattutto senza futuro.
L’attesa diventa così una condizione non desiderata, non voluta e perciò stesso respinta e negata: che senso avrebbe attendere un non-essere? Tutto ciò che è, e quindi tutto ciò che vale e che posso volere e desiderare, deve essere dato ora e qui. Ciò che non soddisfa queste condizioni viene respinto fuori, escluso, negato dalla sfera stessa del «desiderabile».
Su uno sfondo del genere l’idea stessa della «ricerca della felicità» tende a perdere significato, dal momento che ogni ricerca implica l’uscita dall’attimo presente e la tensione verso un futuro ancora assente (ma in cui sarà appunto disponibile ciò verso cui tendiamo).