Fare il bene non significa affatto non fare il male. Questo è un grandissimo equivoco: credere che sia sufficiente non fare il male per essere eticamente irreprensibili, come se non ci fossero che due possibilità, fare il male e fare il bene, appunto, e quindi come se fosse sufficiente (e necessario) non stare in una delle due possibilità per essere necessariamente nell’altra.
Contro la logica dualistica dunque. Fare il bene ha bisogno di fantasia, intelligenza, decisione, volontà: è tutto tranne che comportarsi secondo la normalità banale del non scegliere e lasciare che sia la medietà del “si” a decidere il nostro comportamento. Tutte le qualità e le capacità che si mettono in atto per fare il male, le stesse, devono essere messe in atto per fare il bene. Fare il bene significa costruire una positività, qualunque cosa voglia dire, creare dei rapporti, aprire degli spazi, mantenere aperte delle possibilità.
Certo, esiste come una corrente che porta verso il bene, il cui modello archetipico è l’istinto della madre che apre degli spazi per la vita del bambino: in modo quasi automatico, quasi senza dover decidere, senza dover scegliere. In modo istintivo, appunto. Forse è per questo che fare il bene attrae meno che fare il male: sembra che non ci sia niente da decidere, niente da scegliere, e quindi non ci sia niente di affascinante. Da cui sembra di poter affermare, per inciso, che ciò che ci affascina maggiormente è l’esperienza della libertà. Indubbiamente sembra che ci sia più libertà nel fare quello che gli altri non si aspettano da noi piuttosto che il contrario, dal momento che in questo secondo caso si ha il sospetto che la nostra azione sia guidata non da noi ma dagli altri attorno a noi, che appunto predispongono e prevedono il nostro comportamento, così da stupirsi se esso non si adegua alle attese generali.