Qualche tempo fa una certa collega, parlando di una certa classe, si espresse più o meno in questo modo
Poverini, sono costretti a stare lì seduti ad ascoltarci…
Fu una rivelazione, un lampo, una epifania. E’ vero, pensai: i ragazzi stanno a scuola come se stessero a teatro, ci (mi) ascoltano come se io stessi svolgendo una performance teatrale. Io lavoro in un’ottima scuola della provincia di Milano, i ragazzi e le ragazze che la frequentano si autoselezionano sulla base della fama di “scuola severa” che il mio liceo ha: ci ascoltano educatamente, poi vanno a casa e studiano, infine tornano a scuola e si fanno interrogare. Tutto giusto, per carità, ma…. quand’è che LORO lavorano sul serio? Ossia: quand’è che i ragazzi e le ragazze che mi sono affidati elaborano la propria visione del mondo che li attrezza per prendere le decisioni che la vita impone?
Sono certo che molti colleghi sostengono che non è compito nostro, che il passaggio dalla teoria alla pratica, dalla scuola alla “vita vera” deve essere gestito dalla famiglia o dai ragazzi stessi. Hanno sicuramente ragione, perché in effetti gli studenti non sono figli nostri e noi non ne abbiamo la patria podestà. Quindi i colleghi hanno ragione. In parte. Perché da un altro punto di vista, l’esperienza della scuola (ossia: di quello che si fa a scuola) è l’unico momento in cui questi ragazzi sono chiamati espressamente a essere consapevolmente proattivi nella costruzione della propria persona.
Detto in altre parole: è l’unico spazio in cui viene (dovrebbe essere) chiesto loro: ma tu come interpreti questa particolare situazione (che può spaziare dalla dialettica trascendentale al rapporto Oxfam 2023)? E’ ovvio che un collega di fisica potrebbe rispondere: ma io non insegno questo, insegno la legge di accelerazione dei gravi. Giusto: e infatti penso che il punto di forza della scuola italiana sia proprio quella di essere una scuola “umanista” in senso ampio, ossia capace di aprire lo sguardo a 360° invece di concentrarlo da subito su un unico aspetto della realtà.
Da un altro punto di vista, è fin troppo facile osservare che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: non conta nulla se una persona esce dal liceo con la chiara percezione delle ingiustizie sociali e poi nella vita “vera” le accetta tranquillamente (magari perché si ritrova, per virtù di nascita – ossia senza alcun merito – dalla parte “giusta”). Verissimo anche questo.
Però quello che la mia collega fotografava era una situazione in cui bravi ragazzi sopportano una situazione il cui senso sfugge loro per poi liberarsene il prima possibile “tirando lo sciacquone” e svuotando la memoria di quello che avevano in qualche modo assistito ascoltando il prof. parlare.
E questo mi pare, come minimo, un grande spreco di tempo. Loro e mio. E’ vero che non posso imporre agli altri di non sprecare il loro tempo, però non posso accettare che il MIO tempo vada sprecato. Non trovate?