La cronaca di questi giorni porta alla ribalta ancora una volta le proteste dei ragazzi dei licei milanesi che “soffrono di stress” per i troppi compiti e interrogazioni (da un lato) e per la pressione dei voti negativi che li spinge alla competizione (con casi estremi all’università di suicidio).
Mentre leggo queste notizie sono agitato da sentimenti contrastanti: da un lato mi dico che è impossibile soffrire così tanto per una cosa del genere; dall’altro mi infurio al sospetto che i ragazzi, come si suol dire, “ci marciano sopra” e che in realtà vorrebbero essere lasciati in pace per farsi i cavolacci loro (che naturalmente non comprendono la lettura spontanea della Critica della ragion pura di Kant).
Qui vorrei concentrarmi sul tema della “fatica” dello studio. Noi insegnanti la chiediamo, senza se e senza ma, e ci aspettiamo che venga fatta; i ragazzi soffrono e rispondono che non si sentono valorizzati, dato che i docenti alla fine nel dare i voti non ne tengono conto (ossia, non fanno entrare sul piatto della bilancia la sofferenza affrontata dai ragazzi in termini di tempo e di impegno).
A volte mi pare che da parte degli insegnanti ci sia quasi una forma di nonnismo su questo tema: poichè io ho fatto fatica, la devi fare anche tu (di solito, quando l’argomento arriva a formulazione verbale, compaiono frasi come “ai miei tempi…”, o “una volta…”).
L’idea che si possa imparare “divertendosi” fa venire l’orticaria a molti. L’apprendimento, se deve essere serio, deve essere sofferto, guadagnato col sudore della fronte e meritato. Se manca questo non è un “vero” studio. Da qui l’altro “crampo mentale” che scatta in tutti i modi che vi vengono in mente quando si parla di docente come di un “facilitatore”. Confesso che anch’io detesto questa parola: mi fa fare un lieve sussulto sulla sedia, mentre mi sale dentro la rabbia. Imparare non può essere “facile”!
Poichè queste reazioni sono diffuse a ogni livello, io credo che ci troviamo di fronte a bias che va esaminato al meglio delle nostre capacità. Conosco persone degnissime e assolutamente preparate su entrambi fronti della faglia, e di solito questo vuol dire che ci troviamo di fronte a un equivoco linguistico: un idolon fori, avrebbe detto Bacone.
Io credo che coloro che valorizzano la fatica lo fanno perché la fatica certifica l’impegno reale: se io faccio una cosa faticando, ossia superando ostacoli, impegnando tempo, concentrando energie, vuol dire che ci tengo veramente. Significa che l’obiettivo mi sta a cuore. E’ difficile negare la forza di questa considerazione: resta però di chiarire quale sia l’obiettivo dello studio. E’ prendere otto nella interrogazione? E’ prendere una stentata sufficienza? E’ far contenti i genitori? E’ riuscire a far combaciare il Sè reale con quello immaginato/sognato? E’ costruire la propria persona in modo da prepararla ad affrontare la molteplice varietà della vita? MI pare evidente che ognuna di queste risposte rappresenta una giustificazione con una sua validità: bisogna capire però qual è l’estensione (in termini di tempo e in termini di profondità) di tale soddisfazione.
Su un altro versante, perché la fatica (ossia il fare fatica) è combattuta con tanta energia? Nei campetti di calcio di tutta la Lombardia schiere di bambini e di ragazzi si sottopongono a energici allenamenti, anche sotto la pioggia (quando pioveva, un tempo), anche al buio e al freddo (nei pomeriggi invernali), anche al caldo soffocante dei pomeriggi della tarda primavera. Spesso gli allenatori urlano e gridano, al limite dell’insulto personale (o almeno, urlava e gridava l’allenatore dei pulcini che ascoltavo tutti i sabati nel campetto dell’oratorio sotto casa). Eppure i ragazzi sopportano tutto di buon grado: perché?
Perché si divertono, potrebbe essere la prima risposta. Certo. Ma allora perché i ragazzi non si divertono studiando? Il problema sarebbe risolto. Ma qui probabilmente siamo di fronte a un altro crampo linguistico: “divertirsi” viene dal latino de-vertere, ossia allontanare, distogliere. Il “divertimento”, dotto il profilo etimologico, indica il distogliere se stessi da qualcosa di fastidioso, noioso, faticoso, doveroso, e “fare quello che vuoi”, ossia: quello che ti viene spontaneo e automatico fare (per esempio, lasciarsi cadere sul divano davanti alla televisione, oppure ficcare la testa sul cellulare per seguire le storie di Instagam). Ma questo non è la stessa cosa del “divertimento” di chi va a fare gli allenamenti, con tutta la fatica che abbiamo descritto un attimo fa. Questi, che pure si “di-verte” nel senso che si allontana da casa, dalla routine, dagli impegni della vita, fa qualcosa che lo appassiona, lo coinvolge, lo fa sentire vivo. In questo senso lo studio può essere divertente: io rendo testimonianza che è proprio così. “Studiare” è una delle cose che mi procura più godimento al mondo, e voglio indicare con questa parola proprio un piacere quasi fisico (e certamente un piacere intellettuale).
C’è anche un’altra risposta alla domanda sui ragazzi che si sottopongono a torture per me incomprensibili per tirare calcia a pallone: perchè l’hanno scelto liberamente. Certo, ma allora anche il liceo è stato scelto liberamente, o almeno dovrebbe esserlo. E se non è stato così, onestamente non mi pare corretto attribuire alla scuola (in generale) qualcosa che invece deriva da una mancanza di assunzione di responsabilità iniziale.
(to be continued)