Sono un insegnante delle scuole superiori e per lavoro devo parlare spesso con i colleghi a proposito dell’uso delle tecnologie informatiche a scuola, nell’insegnamento e nell’apprendimento. Il piano Scuola4.0 è stata l’ultima occasione per un confronto, sia pure veloce.
Rimango sempre colpito dal fatto che la discussione sembra trasformarsi immediatamente in un confronto irrigidito, per non dire peggio, tra due schieramenti totalmente opposti: basta sollevare, anche per caso, il tema e subito qualcuno salta su a dire che lui è diverso, che a costo di sembrare arcaico vuole rimanere fedele al buon vecchio modo di studiare. Quelli che invece sono a favore delle tecnologie informatiche richiamano l’attenzione sulla necessità di “tenersi al passo coi tempi” ed esaltano le capacità dei programmi e delle macchine come estensioni della nostra intelligenza. Se devo essere onesto, mi pare però che negli ultimi tempi i difensori dell’informatica siano meno incisivi e radicali di dieci o quindici anni fa.
Io sospetto che una parte almeno del problema sia legato al linguaggio. Chi parla delle ICTs usa, con naturalezza e spontaneità, parole come “nuovo“, “rivoluzionario“, “innovazione”, “cambiamento”: tutti termini che portano con sé, intrinsecamente, una forte valutazione positiva. Ripeto, chi usa queste parole lo fa senza pensarci, guidato dall’ovvia constatazione che un certo programma o un certo device è effettivamente qualcosa di “nuovo”, perché prima non c’era.
Ma chi per un qualsiasi motivo non ha adottato quella tecnologia e si sente rivolgere quelle parole in una discussione ne percepisce immediatamente e soprattutto l’implicazione valoriale se non addirittura morale: se un certo device è “nuovo”, automaticamente quello precedente è “vecchio”, e questo aggettivo trascina con sé, in modo sottile ma inequivocabile, una implicita valutazione negativa.
Per una sorta di trasmissione osmotica, questo giudizio passa dal mezzo tecnico alla persona che lo usa e che si sente per ciò stesso messa in discussione e coinvolta, anzi travolta da quel giudizio negativo. E’ questo slittamento inconsapevole dal piano della tecnologia a quello della persona che fa scattare la reazione piccata (e direi anche, in un certo senso, giustificata): “Come, io sarei vecchio? Sarei superato? Ma come ti permetti? Sei tu che con le tue diavolerie distruggi le nuove generazioni, perdi il senso dello studio, svaluti la scuola e il nostro lavoro” eccetera, eccetera, eccetera. E da questo momento in poi la possibilità di un confronto sereno è andata a farsi benedire perché a questo punto anche il difensore delle tecnologie informatiche, per quanto inizialmente ben disposto al dialogo, si sente a sua volta giudicato e messo sotto accusa e non può che scendere anch’egli in trincea per replicare colpo su colpo.
Ho visto scatenarsi questa dinamica tante di quelle volte che mi sono convinto che non c’entra nulla il carattere e la buona (o cattiva) disposizione personale: qui è in azione un bias legato al linguaggio, che come tutti i bias agisce in modo subdolo e nascosto.
Per cercare di uscire da questa situazione propongo di applicare anche al campo della didattica la nozione di “design concettuale” introdotta da Luciano Floridi nel suo Pensare l’infosfera (Raffaele Cortina editore). Nel contesto originale, si tratta di trovare un punto di equilibrio tra la una posizione “platonica”, per la quale la verità è già data ed è una sola, e una posizione costruttivista-relativista nella quale solo la mente umana produce la verità.
Nel nostro caso, si tratta di richiamare l’attenzione sul fatto che il processo di apprendimento/insegnamento funziona “a geometria variabile”, ossia è qualcosa che cambia e si trasforma pur restando sempre lo stesso. La metafora del “design concettuale” allude al fatto che quando parliamo di argomenti complessi come il processo di apprendimento/insegnamento dobbiamo di volta in volta creare una forma nuova (il “design”, appunto) per qualcosa che è vecchio, nel senso che è qualcosa che c’è sempre stato e ha sempre funzionato (il processo di apprendimento/insegnamento). Quest’ultima, impegnativa affermazione mi pare fondata nella semplice constatazione che noi tutti siamo qui e “sappiamo cose” (almeno come collettività): non abbiamo dovuto, generazione dopo generazione, ricostruire tutto daccapo ripartendo da zero. Non solo la trasmissione/creazione del sapere c’è stata ma ha anche funzionato, indipendentemente da tutte le teorie più o meno contrastanti che ci abbiamo costruito sopra.
Concentriamoci su questo, e liberiamoci dall’ossessione del “mezzo” e soprattutto sbarazziamoci dalla convinzione che esista “un” modo giusto di fare le cose nell’apprendimento/insegnamento. Tutto serve, e noi insegnanti dovremmo usare tutto: sono il primo a sostenere che una lezione frontale tradizionale è in certe situazioni la cosa migliore da fare, e quindi la uso tranquillamente, ma sostengo anche che in altre situazioni funziona meglio una clip video, oppure la costruzione di una mappa concettuale condivisa attraverso un software d’aula come Sanako, o la scrittura di un testo articolato e “pubblico” (ossia rispettoso delle convenzioni metodologiche e tipografiche condivise nel mondo accademico) su Google Documenti in Google Drive. Se serve, tengo inchiodati gli studenti ai loro banchi senza consentire loro un fiato; se un momento dopo serve modificare il setting d’aula e spostarsi in un’area del laboratorio informatico in cui i banchi i banchi sono disposti a ferro di cavallo per un brainstorming P2P, lo faccio. E così via.
Parlare di “design concettuale” significa allora parlare della volontà di “ridisegnare” la propria attività di docente (e quindi anche l’attività che viene chiesta allo studente) in funzione delle concrete, uniche e irripetibili condizioni in cui di volta in volta ci si trova ad operare, per raggiungere lo stesso, unico, permanente obiettivo: favore l’acquisizione stabile di conoscenze capaci di essere impiegate proattivamente nel compito di interpretare la realtà e prendere decisioni su di essa.
Naturalmente, potreste contestarmi questa descrizione della finalità dell’apprendimento/insegnamento, e in questo caso il discorso si allargherebbe a dismisura. Non mi sottraggo al compito, se richiesto, e mi limito a osservare che tutti, ma proprio tutti i programmi di lavoro che ho visto in quarant’anni di insegnamento esaltano l’acquisizione di “capacità critiche” e di “comprensione” dei fatti della vita: esattamente quello che intendo con la definizione che ho appena presentato.
Io sto suggerendo un pragmatismo spregiudicato: “vagliate ogni cosa e trattenete ciò che è buono” (1 Tess 5, 21). Usiamo qualsiasi cosa ci passi per le mani per realizzare il nostro scopo: sganciamo l’obiettivo (che è sempre lo stesso dai tempi di Quintiliano, e sicuramente anche da prima) dai mezzi con cui cerchiamo di raggiungerlo. Senza questo passaggio il valore etico del nostro agire (aiutare la costruzione delle persone che ci sono affidate), su cui non si può transigere e che ha un valore assoluto, finirà per traslare sui mezzi con cui cerchiamo di realizzarlo, che si trasformeranno appunto anch’essi in qualcosa di “assoluto” su cui non si può transigere e da cui non si può arretrare: con tutte le conseguenze del caso, che sono poi le premesse da cui siamo partiti.