La notizia è arrivata oggi sui giornali: i fan di Bruce Sprensteen si stanno ribellando. Il grande cantante a quanto pare ha ceduto allo star system (o forse, più prosaicamente, al richiamo non della foresta ma dei soldi) e ha candidamente ammesso: “A 73 anni voglio fare come i miei colleghi musicisti” e cioè guadagnare un fiume di dollari. Così per il suo prossimo tour (che parte negli Stati Uniti ma arriverà anche in Italia) ha accettato che il prezzo dei biglietti venisse stabilito da un algoritmo che fa fluttuare automaticamente il prezzo dell’ingresso in funzione della domanda. Risultato: per assistere a uno dei suoi spettacoli negli USA è necessario spendere 1000, 2000, perfino 5000 (cinquemila!) dollari. In Italia l’algoritmo non è stato attivato e si spendono “solo” duecento euro.
A me pare uno scenario che apre uno squarcio su un futuro già tante volte immaginato dagli autori della fantascienza, in cui ogni aspetto della nostra vita viene gestito dalle macchine. A quanto pare il futuro è già qui, o almeno sta già arrivando: bisogna attrezzarsi, soprattutto dal punto di vista concettuale.
Il software di cui stiamo parlando, a quanto pare, è stato immaginato (almeno formalmente) per lo scopo di ridurre il peso dei bagarini, ossia di quel fenomeno per cui gruppi organizzati acquistano in massa i biglietti di un evento e poi li rivendono privatamente a un prezzo molto maggiore. In effetti il “Boss” avrebbe commentato: “Quel denaro…così almeno paga chi suda sul palco”. Cioè lui, e a voler essere moooolto ottimisti quelli della band: tutti gli altri, ossia la galassia di persone che ruota attorno a un evento complesso come un grande concerto di oggi sono avvertiti: per loro cambierà poco o nulla, continueranno a lavorare tanto e guadagnare poco, esattamente come oggi.
Quindi, alla fine è il sistema capitalistico “puro”, quello dell’Ottocento, che sembra prendersi la sua rivincita attraverso la tecnologia informatica: chi ha il potere piglia tutto e diventa sempre più potente, gli altri si devono accontentare delle briciole, e solo se ci sono. Certamente il caso in questione è così interessante perché in ogni caso emerge con grande evidenza la molla dell’egoismo, puro e semplice, dell’essere umano, anche di quelli che riescono a diventare simboli di libertà per intere generazioni, coagulando sopra la propria persona le aspettative, i sogni e le promesse sul futuro dei fan. Invece si torna a Mandeville, e solo gli ottimisti più incalliti sperano ancora nel lieto fine della sua favola.
E tuttavia la tecnologia è “solo” tecnologia, nel senso che le macchine sono prevedibili e gli umani possono, almeno in teoria, organizzarsi per batterle. Io non conosco i dettagli tecnici di questo benedetto programma che è al centro del caso, ma se veramente facesse variare i prezzi in funzione della domanda, sarebbe in teoria possibile ingannarlo se i potenziali spettatori accettassero di contenere il proprio “appetito” (in senso hegeliano ma non solo) e si coordinassero per spalmare la propria richiesta di biglietti in modo tale da fare credere alla macchina che la richiesta sia molto minore di quella che è in realtà, e farle così abbassare i prezzi. Ovviamente il sed contra è che nessuno dei fan, per definizione, vuol stare nella parte di quelli che verrebbero esclusi: all’egoismo di Stringsteen si contrappone l’egoismo di ciascuno dei suoi ammiratori, disposti almeno in teoria a fare follie per il loro idolo, e così il sistema riesce a succhiare dal pubblico molti più soldi di quanto non faceva prima.
In ogni caso la delusione della massa dei fan è grande, al punto che la fanzine (ossia la loro rivista dedicata) ha deciso di chiudere in segno di protesta. Non pare che la cosa abbia inquietato Springsteen.
Resta il fatto che alla fin dei conti sono le passioni a muovere il mondo (o almeno sembra che sia così), e quindi la questione diventa squisitamente filosofica: possono le passioni essere governate “razionalmente”? Oppure siamo condannati a subirle?
Il destino di un vecchio rocker e del suo pubblico è un tema decisamente periferico nella geografia di un mondo sconvolto da ben altri problemi, così gravi che ad elencarli sembra di rileggere una Apocalisse aggiornata all’oggi. E tuttavia questo caso di studio è interessante proprio perché anticipa con chiarezza uno dei possibili esiti del progresso della tecnologia e del suo impatto sulla società. Ora ci si può solo dividere tra quelli che ritengono questo esito ineludibile (al massimo rimandabile), in quanto portato da una “logica profonda” delle cose (che dopo sia il Geist o le leggi capitalistiche poco importa) e quelli che invece si arroccano a difesa della libertà umana come ultimo e definitivo arbitro della questione. Ma va aggiunta una chiosa: “libertà”, qualunque cosa significa, non si può ridurre alla spontaneità di un impulso, che come si è visto è facilmente piegabile in modo eterodiretto. “Libertà” è il nome di una cosa grossa, che richiama tutto l’essere della persona, e che ha bisogno di essere educata e di crescere insieme alla persona stessa: un compito che rilancia la filosofia come condizione profonda e campo di gioco in cui quel processo viene portato a consapevolezza e possibilmente attuato.
[l’immagine di copertina è stata generata da MidJourney]