Si fa, quello che si deve fare

Il Corriere della Sera, il 28 gennaio 2023, ha pubblicato un lungo articolo per ricordare l’omicidio di Germana Stefanini, uccisa appunto il 28 gennaio del 1983 dal Nucleo per il potere proletario armato, un gruppuscolo del tutto marginale nella galassia del terrorismo extraparlamentare di sinistra che insisteva anche a tempo scaduto nell’ipotesi di provocare una rivoluzione armata contro lo stato. 
Stefanini era una guardia carceraria a Rebibbia, il grande carcere di Roma. Non era sposata e al momento dell’omicidio aveva 57 anni.
I terroristi penetrarono nel suo appartamento in via Albimonte, una via popolare del quartiere Pigneto a Roma, e la sottoposero a un simulacro di interrogatorio, secondo la lugubre liturgia delle Brigate Rosse.
Solo che la  trascrizione dell’interrogatorio mostra la distanza abissale tra quei fanatici fuori dalla storia e la realtà della vita.
 
«Hai la licenzia media?»
«No»
«Che c’hai?»
«La quinta elementare»
La quinta elementare. Il livello basico della formazione scolastica, quello che una volta era tipico delle classi sociali «proletarie». I terroristi dicevano di combattere «per il popolo» ma poi andavano a colpire i più deboli, quelli che potevano raggiungere senza sforso: proprio quelli del popolo.
 
«Perché hai scelto questo mestiere?» le chiedono
«Perché non sapevo come poter vivere… Mio padre è morto nel ’74 e nel ’75 sono entrata a Rebibbia»
 
La signora era nata nel 1926 e aveva cominciato a lavorare quando aveva 49 anni.  Non avendo nessuna formazione né prepazione di alcun tipo (sembra) non poteva aspirare a grandi impieghi. E tuttavia l’ideologia vuole immaginare a tutti costi un progetto politico dietro a questa scelta che era probabilmente solo dettata dalla necessità di arrivare a fine mese.
 
«Che funzione hai?».
«Io faccio i pacchi… è poco che sto ai pacchi?»>.
«Ah è poco? Sono sei anni»
«Prima lavoravo all’orto. Reparto orto di Rebibbia».
 
Reparto orto? Sarebbe interessante saperne di  più…
 
«Controllavi il lavoro delle detenute?».
«No, lavoravo pure io. Se parli con le politiche (detenute per fatti di lotta armata, ndr) nessuna mi dice male, a me tutte mi portano così. Io le ho sempre trattate bene. Loro c’hanno l’idea loro e io la rispetto».
 
Non pare proprio il ritratto di una che sia strumento di oppressione del popolo; semmai, una del popolo che cerca di andare avanti senza disturbare nessuno. 
 

«Andiamo per rimanere che devono fa ?»
«Un concorso.»
«Tu che hai fatto? un concorso?»
«Io sono entrata come invalida. »
«Perché ci sono posti riservati come ai ministeri?»
«Siccome mio padre era invalido di guerra»
«Tuo padre era agente di custodia?»
«No era idraulico»
«Ma tu questo mestiere perché lo fai?»
«Perché, morto mio padre dove andavo a lavorare? Dovevo andà di servizio ma non glie la faccio»

Ma tu questo mestiere perché lo fai? Che razza di domanda…. come se una volesse sin da bambina fare la «operaia di 2° categoria con la qualifica di Vigilatrice penitenziaria».

«Spiegaci come sei entrata a Rebibbia». «Ho una cugina suora e lei me l’ha detto, perché lì non dovevo fare grosse fatiche e non dovevo tenere le mani a bagno. Io risposi “proviamo”». (…)
«Ma è il primo lavoro che facevi, questo?»
«Sì, perché avevo papà invalido di guerra»
«Tuo marito che stava…»
«Non sono sposata. Se avessi avuto marito mi contentavo di quello che portava lui…».

 
La più classica delle situazioni italiane: un’entrata sicura, anche se modesta, senza la necessità di lavorare (la pensione di invalidità) e il maggior numero possibile di persone senza pretese che ci vivono sopra. 
A un tratto nella registrazione si sente il pianto di Germana e uno dei sequestratori che dice «Nun piagne, tanto non ce frega un cazzo!», ma la donna insiste: «Ve l’ho detta la mia vita, perché ve la dovete prendere con me?». La stessa voce risponde: «Te l’ho detto, nun piagne, nun me commuovi proprio».
Infatti. Ma perché mai hanno scelto proprio la signora Stefanini? Come poteva essere il simbolo della oppressione dello Stato sui proletari? Non conosco i documenti processuali, le eventuali testimonianze e quant’altro, ma ho il sospetto che semplicemente abbiano scelto Stefanini perché era facile da colpire, perché non aveva protezioni e perché non poteva difendersi in alcun modo.
 
Tutto questo avvenne nell’appartamento della vittima, dove i terroristi l’avevano aspettata e bloccata al suo arrivo. Nello stesso palazzo, un piano più su, abitava un’altra guardia carceraria in servizio a Rebibbia, Mirella; i «proletari armati» provarono a rapire anche lei facendo – la chiamare da Germana dalla finestra, ma la donna rispose che non poteva perché aveva il bambino malato.
Se non fosse una tragedia, qui la storia vira verso la farsa all’italiana. I terroristi sono così disorganizzati da improvvisare un secondo rapimento cercando di usare la Stefanini come esca, e il tentativo fallisce per il più italiano dei motivi: «Tengo ‘o creatura», che oltretutto è malata. In ogni caso la signora Mirella si salva. 
 
Con lei c’erano pure Marisa e Massimo, la nipote di Germana e il suo futuro marito; lui si affacciò e chiese se voleva che scendesse Marisa, ma Germana rispose brusca: «No, non mi servite a niente»
E qui tutto cambia. La signora Stefanini avrebbe potuto a questo punto fare qualcosa; avrebbe potuto chiamare aiuto, avvisare della situazione, magari cercare di scappare. Forse sarebbe stata uccisa lo stesso, ma forse gli altri, allarmati, avrebbero potuto chiamare aiuto. In ogni caso chiamare aiuto avrebbe coinvolto altri nel pericolo, e non degli altri qualsiasi, ma dei membri della famiglia. Immaginare cosa sia passato per la testa per quella donna in quel momento decisivo è impossibile e forse blasfemo. Eppure deve aver intuito in una frazione di secondo che la cosa giusta da fare era tenere gli altri fuori dal pericolo, a costo di accettare senza ribellione la propria morte. Si ragiona, in un momento come quello? Si può soppesare il pro e il contro delle proprie scelte? È più probabiile che abbia ragione Kant, quando dice che «si deve perché si deve», nel senso che si intuisce la razionalità del gesto non come la conseguenza di una lunga catena di ragionamenti ma come la consapevolezza che è l’unica cosa si può fare per restare umani. I giornalisti, nella loro untuosa retorica, finiscono per chiamare «eroi» persone come queste, che invece sempre e sistematicamente rifiutano questa etichetta e spiegano: «Lo avrebbe fatto chiunque». Non è vero, naturalmente. 

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