Ho una domanda per tutti coloro che in questi giorni stanno esaltando la didattica “In presenza” contrapponendola alla didattica “a distanza” come il ene al male, il barolo al lambrusco, la Ferrari alla Fiat Duna: come la mettiamo con i ciechi? Chi non vede non ha il contatto visivo; non può scorgere tutte le sfumature nelle espressioni facciali dell’altro; non può cogliere lo sfondo che accoglie e valorizza la presenza e l’intervento dell’altro; non può godere e sfruttare la pluralità delle sfumature dei colori, delle grafie, delle mappe concettuali. Per non parlare di una possibilità minore e diversa di godere degli spazi. C’è qualcuno che intende veramente sostenere che queste persone, la cui esperienza si concentra sulla dimensione acustica-tattile-olfattiva, non possono seguire una lezione o tenere una lezione? Eppure l’intensità della loro esperienza di apprendimento / insegnamento lascia fuori molto di quello che viene portato in questi giorni a difesa della lezione “in presenza”.
Io torno a proporre la mia intuizione: quello che conta è la “prossimità” tra chi insegna e chi impara, ossia la reciproca apertura necessaria per attivare il processo maieutico, e questa prossimità si può attivare in molti modi, anche “a distanza”. Nel rapporto “in presenza” è più facile, perché si inserisce in una serie di comportamenti e di reazioni istintivi: che però possono anche essere distrattivi.
il momento in cui si “impara qualcosa” è un momento di “intensità dell’esperienza” in cui la realtà si manifesta sotto un profilo inatteso, portandoci a a una ristrutturazione del campo delle conoscenza precedenti. La semplice “acquisizione dei contenuti” è una operazione relativamente banale, che si giustifica, sul lato di chi impara, solo per il senso di piacere che si prova nel momento in cui “i pezzi vanno al loro posto” e si manifesta una nuova prospettiva sulla realtà. La nozione di “intensità” è tutta interiore e non è collegata a eventi straordinari del mondo fisico: sono momenti che per lo più si inseriscono nella quotidianità della banale attività a scuola o a casa. E anche sul versante interiore non è affatto detto che assomigli a un orgasmo intellettuale (anche se può assumere questa forma). E’ però un momento in cui la coscienza è totalmente assorbita in quello che sta “facendo”, dove il “fare” è quella riorganizzazione dei contenuti mentali che coincide con la crescita della persona: una “attività” interiore di cui quella esteriore è metafora (e forse qualcosa di più). Per questo, comunque, è così affascinante vedere i ragazzi che “lavorano insieme” o, viceversa, sperimentare questo “lavorare insieme” in cui una persona, parafrasando Battisti, “qualche volta impara a volte insegna”, in uno scambio reciproco di posizioni tra l’essere “docente” e l’essere “discente”.