Compiti e risultati

Vorrei cercare di affrontare il problema delle competenze da un altro punto di vista.

Seguendo un articolo apparso sul Sole24ore a firma Massimo Calì il 16 gennaio 2018, un testo piuttosto confuso a dire il vero, vorrei distinguere tra compito e risultato. Il compito è quello che si fa normalmente a scuola. È una consegna ben precisa per la quale esiste una sola soluzione possibile, che è quella che l’insegnante si aspetta e che lo studente deve produrre.

La forma ideale di compito è il questionario a scelta multipla, che non a caso veniva una volta descritto come «Prova oggettiva»: ci misi molto tempo a capire, all’epoca, che l’aggettivo in questione non voleva dire che l’esercizio era capace di descrivere in maniera oggettiva le capacità del ragazzo, ma che non poteva essere messa in discussione da nessuno.

Appena sopra il questionario a scelta multipla sta l’esercizio di grammatica, particolare di una lingua morta: l’accusativo singolare di “civis, civis” può essere solo civem. L’insegnante lo sa, vuole controllare se anche lo studente lo sa. Lo studente deve dare quella risposta e solo quella risposta. Tutto molto chiaro e semplice. La stessa cosa vale per la grammatica italiana, quella inglese, e così via. Anche gli esercizi sulle date si storia, quelli di aritmetica e forse quelli di chimica rientrano abbastanza bene in questa categorie.

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Naturalmente i compiti si giustificano sulla base del fatto che dovrebbero essere propedeutici a un tipo di attività diversa e più creativa da parte dello studente. Credo che nessun insegnante degno di questo nome abbia mai pensato che “conoscere una disciplina” possa essere identificato con la risoluzione di questi esercizi. Tutti si aspettano, piuttosto, che la pratica a questo livello faccia nascere (in un modo piuttosto oscuro e misterioso, devo dire) nello studente la capacità di procedere da solo ed essere in qualche modo creativo. In altre parole, tutti si aspettano che le conoscenze, tramite le abilità, si trasformino in competenze (tanto per usare la terminologia in voga oggi).

La prospettiva del “mondo della vita” (non voglio usare il termine “aziendale” perché è troppo riduttivo) è diversa. La vita non pone compiti di cui qualcuno conosca già la soluzione: pone problemi e basta. Bisogna rispondere a questi problemi con soluzioni che forse non sono mai state scritte prima. Il semplice fatto che ciascuna persona è diversa porta alla conseguenza che ogni soluzione sarà diversa. E qui si passa a un altro livello: quello del risultato (uso questa parola per rispettare la consuetudine, ma sono consapevole che è un termine carico di ambiguità; si potrebbe forse usare l’anglicismo target, o addirittura goal, se non fosse che poi sorgerebbe altre ambiguità).

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Nel mondo della vita conta il risultato. Siccome bisogna fronteggiare un problema, e il problema DEVE essere risolto, si deve provare e riprovare fino a quanto il problema non è risolto. Le strade non sono già pre-tracciate. Non basta riempire delle caselle. Bisogna utilizzare tutte le conoscenze e le abilità a propria disposizione per raggiungere lo standard richiesto non da un insegnante, ma dalla vita stessa. La malattia deve essere curata, il motore deve funzionare, la casa deve stare in piedi, il cibo deve poter essere mangiato e così via. La conoscenza si trasforma in competenza: è una conoscenza in azione. Anzi, sono sempre molte conoscenze che devono entrare in azione contemporaneamente per risolvere il problema, e sono tante di più quanto più il problema è complesso.

Anche nel mondo della scuola in realtà esiste questa distinzione ed è facilissimo percepirla: quando si chiede a uno studente di scrivere un tema o anche solo tradurre un testo di latino che non ha mai visto prima gli si chiede di “risolvere un problema” . Ed è proprio li che si passa al livello delle competenze. Tutti conosciamo casi di ragazze e ragazzi che sono bravissimi a rispondere alle domande di letteratura italiana ma che non riescono a scrivere un tema decente.

Le complicazioni sorgono quando i due piani (scuola e vita, compito e risultato) vengono scambiati o fraintesi. Se io dico a uno studente, che deve fare un compito, che “conta il risultato”, lui immediatamente salta alla conclusione che il modo più veloce ed efficace di risolvere il compito sia quello di copiare. Qui emerge l’equivoco: sul piano del compito la “soluzione” è già nota, mentre su quello del “risultato” la soluzione va inventata di volta in volta.

Quindi:

se dico compito, intendo processo chiuso, con un risultato noto (all’insegnante), per controllare il possesso di conoscenze e abilità (ossia, per definizione, la capacità di risolvere un compito).

se dico risultato, intendo un processo aperto, con un risultato non noto, per risolvere un problema che la vita mi pone e per il quale devo attivare delle competenze.

Perché nascono gli equivoci? Beh, intanto forse perché sono le stesse persone che a scuola propongono i compiti e i problemi e valutano le soluzioni. Gli alunni vedono sempre gli stessi insegnanti: come fanno a capire che vengono chieste loro cose diverse? In altre parole: forse basterebbe far leggere i temi a persone fuori dalla scuola per capire se lo studente sa scrivere oppure no.

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